venerdì 21 febbraio 2014

Oratoria e Retorica in Marco Tullio Cicerone

Saggio di Manlio Tummolo

Bertiolo (UD)


Marco Tullio Cicerone è una figura centrale in ogni storia delle teorie estetiche, perché segna il passaggio dalle teorie elleniche ed ellenistiche, finora esaminate, a quelle più propriamente romane, che non hanno caratteristiche di particolare originalità, ma assorbono e adattano una mentalità più rigorosamente teorica, come quella ellenica, alle finalità pratiche della mentalità tipicamente romana. Già del resto i Greci avevano fatto dell’oratoria e dell’eloquenza strumenti di natura politica; i Romani, e Cicerone in particolare, accentuano la funzionalità concreta nelle attività quotidiane politico-organizzative. Cicerone, poi, ha un’importanza prevalente nella storia dell’estetica oratoria e nella retorica, in quanto è una figura pressoché completa: non è soltanto un grande politico, un abilissimo avvocato, ma è anche un notevole filosofo, scrisse pure un poemetto elogiativo su certe vittorie da lui ottenute in oriente. Tutte quelle che oggi consideriamo scienze umane furono per lui oggetto di studio e, sebbene senza caratteri di spiccata originalità (non è certo all’altezza dei grandi filosofi greci), tuttavia ha una sua ricca ed interessante personalità, che riordina e rielabora le concezioni altrui rendendole proprie o, comunque, con proprie caratteristiche. Si potrebbero, volendo, anche confrontare le sue teorie retoriche e di estetica del discorso oratorio con i suoi discorsi, così come trascritti (soprattutto le celebri “Catilinarie” e le“Filippiche” contro Antonio), per verificare quanto quelle teorie fossero state applicate di fatto. Ma, sinceramente, non mi sembra necessario, nell’economia di questi saggi, in quanto richiederebbe uno spazio notevole, con confronti puntuali, ed il tutto risulterebbe di dubbia utilità, in quanto i testi che noi abbiamo a disposizione (a parte il fatto che noi lavoriamo su traduzioni, per non complicare il discorso e per renderlo fruibile a tutti) non sono i discorsi effettivamente pronunciati, ma quelli trascritti più tardi sulla base probabile di appunti, anche in forme stenografiche, per noi completamente perduti.

E’ celebre, ad esempio, il fatto che il discorso “Pro Milone” risultava pronunciato in maniera ben più modesta a causa della presenza fisica dei sostenitori di Clodio, ucciso in uno scontro di bande da Milone, che Cicerone difendeva. Il grande oratore non era uomo di estremo coraggio, sebbene seppe morire poi con dignità, e non pronunciò affatto quelle energiche frasi che, viceversa, si leggono nel testo scritto, a noi tramandato e che, secondo lo stesso Milone, sarebbero riuscite a salvarlo. Le stesse “Catilinarie”, pur pronunciate in ben altro stato d’animo, con la sicurezza del largo sostegno del Senato e l’appoggio delle forze militari regolari, furono rielaborate successivamente alla repressione del moto catilinario. Sarebbe così errato ritenere che i discorsi a noi tramandati siano pressoché uguali a quelli effettivamente pronunciati, e che possano così consentirci di confrontare le sue teorie con la pratica oratoria.

I testi sui quali lavoro sono due: “L’Oratore” (1) e “La Retorica a Gaio Erennio” (2), il cui testo non è attribuibile con certezza a Cicerone, ma è una di quelle opere la cui stesura è incerta relativamente all’autore, ma viene ascritta a Cicerone per tradizione. Beninteso, la mia analisi non ha pretese di completezza né quantitativa, né qualitativa: è soltanto un’occasione per proseguire con una certa logica, che coincide spesso con la cronologia, l’approfondimento del pensiero estetico, qui, come anche in molti autori ellenici, rivolto essenzialmente all’arte oratoria e del bello scrivere, piuttosto che allo stile narrativo (i Romani conoscono i poemi, le poesie, le tragedie e le commedie, ma ignorano, almeno fino a Petronio, il romanzo o il lungo racconto, per cui sembrano ignorare ogni dottrina sullo stile nel settore narrativo, seguono le direttive aristoteliche, senza grandi divergenze: tutt’al più, nel caso delle commedie, appare una certa tendenza pratica alla tradizione italica etrusca - di cui conosciamo cose molto indirette e parziali - ed osca, ovvero campano-sannita), di cui, per quanto mi risulta, Cicerone si occupò solo parzialmente.

Il “De Oratore” si presenta in forma di dialogo, in 3 Libri, a carattere autobiografico, dove intervengono, quali interlocutori, il fratello Quinto e Lucio Licinio Crasso, uno dei principali oratori dell’epoca, padre o, almeno, parente del celebre personaggio che, bramoso d’oro e di ricchezze, catturato dai Parti nella battaglia di Carre, fu spietatamente ucciso dagli stessi con oro fuso colatogli in bocca, per ordine della regina Tamiri, proprio per punirlo di aver organizzato quella spedizione, al fine di impadronirsi delle ricchezze di quel popolo.

Entriamo, dunque, nell’argomento: nel Libro I, dopo una premessa di carattere personale, Cicerone confronta l’eloquenza con altre discipline, chiedendosi del perché, numericamente, i cultori di tali altre discipline (ad esempio, l’arte militare) prevalgano sugli oratori. Nega ancora che la storia romana precedente abbia segnalato grandi oratori, pur essendovi molti uomini ben capaci di governare. E’ anche interessante notare come egli, pur potendosi considerare un grande patriota, negava che Roma potesse vantarsi di aver avuto grandi scrittori, filosofi, poeti: “... i meno numerosi sono i poeti di grande valore. E anche in questo piccolo numero…, mettendo a confronto con cura il numero dei poeti e degli oratori nostri e greci, si può nondimeno constatare che il numero dei valenti poeti è sempre maggiore di quello dei valenti oratori...” (3).

Cicerone sembra quasi stupirsi di tale fatto, visto che l’eloquenza è una qualità o arte da utilizzarsi quasi ogni giorno, ma ciò è dovuto al tipo di espressione che si discosta dal linguaggio comune. Cicerone, tuttavia, ritiene che, dopo l’espansione della repubblica nell’intero Mediterraneo, lo studio dell’eloquenza cominciò ad appassionare i giovani che mirassero alla vita politica, al successo, alla “gloria”. Si cominciò così a seguire il modello greco (4). Si ripete, insomma, quanto già avvenuto in Grecia, dove l’oratoria diventa non semplice strumento di comunicazione politica, ma addirittura una garanzia di successo, in quanto solo chi avesse un’eloquenza brillante poteva sperare di ottenere risultati migliori alle elezioni e quindi ascendere il cursus honorum.

Nel capitolo successivo, egli si occupa dei requisiti necessari per essere un buon oratore. E’ celebre il detto di Catone, in riferimento all’oratore in senso politico: “Vir bonus dicendi peritus”, ovvero “un uomo onesto esperto nell’arte del dire” (5); ben più articolata è la valutazione di Marco Tullio: “... Si deve infatti possedere una vasta cultura, senza la quale l’oratoria è un vaniloquio futile e ridicolo; e lo stesso stile deve venire ben plasmato non solo con la scelta ma anche con la disposizione delle parole; si devono poi conoscere a fondo tutti i sentimenti e le passioni di cui la natura ha dotato il genere umano; perché tutta la potenza e tutta l’arte dell’eloquenza devono essere impiegate a placare ed eccitare l’animo degli ascoltatori. Bisogna inoltre che nel discorso vi sia una certa grazia ed arguzia, e poi una cultura degna di un uomo bennato [il neretto è mio: proprio la cultura è una delle qualità che più fanno difetto nei politici d’oggi], prontezza e concisione sia nel replicare sia nell’attaccare, non disgiunte da fine garbo ed eleganza. E’ inoltre necessario conoscere bene la storia del passato… Né dev’essere trascurata la conoscenza delle leggi e del diritto civile…, [il] che deve essere sorvegliato nei movimenti, nella mimica e nella giusta e varia modulazione della voce…” (6).

Ora, il filosofo romano non intende affatto dire, come si confermerà, che l’oratore debba assumere pose preventivamente studiate, ma possedere l’intuizione della giusta valutazione del momento, del pubblico presente, della situazione circostante; la sua non è una recita improvvisata, ma l’espressione sentita e viva nella compartecipazione con i suoi ascoltatori (fossero anche rivali o nemici). Come si è detto, nei saggi precedenti, l’oratoria deve essere insieme spontanea, sincera per quanto possibile, ma non improvvisata, non abbandonata al caso. La presenza dello studio e delle conoscenze dell’oratore non deve intervenire meccanicamente, ma in modo fluente, vivo e naturale, in modo che il pubblico non lo senta artificioso, ma come se fosse creato del tutto di getto in quel momento. L’ultima, ma non per importanza secondo Cicerone, è la capacità mnemonica: infatti, allora soprattutto, era necessario, proprio per dare il senso dell’immediatezza delle cose dette, avere prontezza di memoria: oggi, lo è meno, anche per l’abitudine di leggere discorsi scritti, ma questo è uno dei nodi dell’oratoria se il discorso non è una conferenza e non presenta dati di particolare complessità, non dovrebbe mai essere scritto, ma improvvisato, con al massimo qualche appunto scritto da utilizzare come traccia e per evitare la dispersività : “... Per questo non dobbiamo più chiederci stupiti il motivo per il quale sono così poco numerosi i buoni oratori, dal momento che l’eloquenza è la sintesi di tutte quelle discipline, ciascuna delle quali esige una grandissima fatica, ma dobbiamo esortare i nostri figli e tutti gli altri di cui ci stiano a cuore la fama e il prestigio, a rendersi consapevoli dell’importanza dell’eloquenza… (...) A mio parere, nessuno può essere un oratore compiuto se non ha acquisito la conoscenza degli argomenti e delle discipline più importanti. Infatti il discorso deve sbocciare e sgorgare abbondante dal sapere; se non è sotteso un contenuto ben conosciuto e padroneggiato dall’oratore, esso si riduce ad un’esposizione per così dire vuota e puerile…” (7).

Dunque, l’oratore, o è uomo colto e parla di cose ben conosciute, oppure è un ciarlatano, un chiacchierone. Molto spesso si sentono complimentare personaggi celebri, attribuendo ad essi doti “comunicative”, confondendo ancora l’arte oratoria che si avvale della scienza e della conoscenza, con l’abitudine imbonitrice del venditore ambulante che esalta le merci in vendita.

Cicerone prosegue poi con il riferimento alla teoria ellenica dell’oratoria ed alle sue distinzioni: riconosce così l’inutilità di seguire una strada già battuta e a tutti nota, e preferisce esaminare invece i politici romani quali modelli di oratoria, almeno quelli del secolo a lui corrente, prendendo occasione da un dialogo (probabilmente in parte realmente accaduto) a Tuscolo, patria dello stesso Cicerone, tra Lucio Crasso ed altri personaggi. Ora, per evidenti ragioni in quanto non riguardano il tema estetico ma quello politico o sociale, tralascio le considerazioni sull’utilità dell’oratoria come strumento di propaganda, anche se Crasso asserisce pure importante l’eleganza della conversazione in ambito familiare o tra amici, Scevola, il suo interlocutore, pur apprezzando l’eloquenza respinge l’idea che essa possa essere l’unica qualità utile in politica e nei rapporti sociali, e cita personaggi antichi da Romolo in poi quali fondatori di uno Stato, senza bisogno di essere grandi oratori. Ricorda anche, quali abili oratori, i due fratelli Gracchi, primi forse in Roma ad usare questa arte di persuasione nell’attività politica. Crasso, quindi, riconosce che l’oratoria è importante per il politico, ma anche per il filosofo e lo scienziato, ricordando fra gli altri Platone, il quale, pur schernendo l’oratoria (aggiungerei io, di natura propagandistica, politica), era di per sé un grande oratore: “Che c’è, infatti, di tanto insensato quanto un vuoto risuonare di parole, siano pur sceltissime ed elegantissime, quando dietro ad esse non ci siano nessun pensiero e nessuna competenza ?….” (8).

Crasso ancora sottolinea che, anche nel settore più tecnico dell’oratoria, come quello giudiziario, occorre essere capaci di incitare all’ira, all’odio, allo sdegno, o - inversamente – alla calma, alla pacificazione: ebbene, solo con un’ottima conoscenza dell’animo umano ciò sarà possibile (ed, infatti, quanti pretesi consiglieri di pace, con quel famoso e comune “càlmati, càlmati”, finiscono per eccitare ancor di più la rabbia dell’adirato: solo assumendo, almeno apparentemente, una rabbia ancora maggiore, chi vuol calmare, riesce nello scopo, perché la persona arrabbiata si rende conto dell’esagerazione e ne sorride; un altro pessimo sistema è quello di dare ragione ad uno dei due contendenti; ciò finisce per irritare l’altro: dunque, in un tal caso, occorre cercare, per calmarli, di dare ragione ad ambedue, mettendo in evidenza gli aspetti positivi delle pretese di uno e dell’altro).

Più avanti, c’è un capitolo sul paragone tra l’oratore ed il poeta, che viene considerato come “il parente stretto dell’oratore”(9): la cosa non appaia stramba perché tanto il poeta, come ogni letterato, deve esercitare opera di convinzione, ma più come seduzione, che non quale convincimento razionale o semi-razionale. Deve saper trasmettere sentimenti, con la differenza che l’oratore opera su fatti reali che stanno accadendo, il poeta perlopiù su cose inventate o trascorse, ma modificate dalla sua fantasia. Per Crasso, in sostanza, il vero oratore, come poi ulteriormente specificherà l’oratore “ideale”, deve essere cultore di tutte le arti liberali, utilizzandole non in modo saccente o dottorale, bensì con spontaneità, quasi per “ispirazione”. Scevola, viceversa, nega che gli oratori del tempo possedessero tali qualità e cita lo stesso Crasso come un esempio incompleto di tale oratore. Così Crasso allora risponde: “... io non ho parlato delle mie capacità, ma di quelle dell’oratore ideale: infatti, cosa ho imparato e cosa ho potuto conoscere io… se in me cui, a tuo parere, non manca completamente l’ingegno, ma certamente mancarono preparazione, tempo da dedicare allo studio e, per Ercole, anche la passione ardente di imparare, ti sembra ci sia tanta bravura, di che livello pensi sarà l’oratore in cui si fonderanno con un ingegno magari maggiore del mio le conoscenze che io non ho acquisito ?” (10).

Antonio, un altro interlocutore (si tratta sempre di personaggi storicamente esistiti, ma a cui non necessariamente vengono attribuite tesi effettivamente sostenute dagli stessi), sostiene che l’ideale dell’oratore come uomo coltissimo è fuori della realtà, e non sarebbe praticabile una simile formazione. Quasi con un gioco di specchi contrapposti, Antonio ricorda un dibattito fra studiosi greci, che più o meno ripercorre la questione se l’oratoria abbia natura pratica o natura scientifica, con ciò affrontando il tema che, alla fine, rimane pure lo stesso, della distinzione fra “disertus”(facondo, chiacchierone, imbonitore, ecc.) ed “eloquens” (elegante, raffinato nel parlare, colto, ecc.). Riprende Crasso, sollecitato da altri personaggi, che gli chiedono se esista un’arte dell’eloquenza; egli inizialmente si schermisce, poi nega che esista una specifica arte dell’eloquenza, che si acquisisce non tanto con lo studio teorico, quanto con la pratica: “... che c’è di più sconveniente infatti del parlare del parlare, dal momento che il fatto stesso di parlare è sempre fuori luogo se non è motivato dalla necessità ?” (11).

Dunque, si parla per uno scopo concreto, non per parlare delle stesse regole del discorso (naturalmente, l’affermazione non va vista in una prospettiva didattica, dove necessariamente si insegnano le regole del discorso). Ed ecco un punto fondamentale: sono le doti naturali, in primo luogo, a fare dell’oratore ciò che è. Come si nasce con attitudini di un certo tipo, così si nasce o non si nasce oratore: “Ecco, dunque, come la penso – continuò Crasso - per prima cosa sono una disposizione naturale e l’ingegno che dànno il maggior contributo all’eloquenza, a codesti scrittori di retorica di cui ha parlato poco fa Antonio, non mancarono né il metodo né le regole dell’oratoria, bensì le qualità naturali; cuore e intelligenza devono infatti avere prontezza e agilità, da cui derivino acume nell’invenzione degli argomenti, ricchezza nello svilupparli e nell’ornarli, fedeltà e tenacia nel ricordarli. Se qualcuno pensa che tutto questo si possa ottenere con l’arte (il che è sbagliato…), cosa dire di quelle doti che senza dubbio sono congenite, vale a dire la lingua sciolta, il timbro della voce, i buoni polmoni, la vigoria fisica, la conformazione armoniosa del corpo e i bei lineamenti del volto…” (12).

Probabilmente, qui Crasso si lascia prendere la mano; d’accordo sui primi quattro punti (discutibile tuttavia la vigoria fisica, però è certo che chi non sta bene di salute, non ha certo voglia di far discorsi pubblici), ma il bel corpo ed il bel viso possiamo escluderli dalle qualità dell’oratore (chi mai possiede tante qualità riunite ?), L’affermazione va presa come paradosso, tuttavia non eccessivo: per l’oratore, anche il fascino, la piacevolezza complessiva conta. Nella storia dell’antica Ellade, è celebre l’episodio di una delle guerre tra Sparta e Messene: avendo chiesto gli Spartani aiuto agli Ateniesi, questi mandarono loro un poeta gobbo e storpio, il celebre Tirteo. Il dono poteva sembrare una derisione, ma Tirteo con la sua poesia infiammò così tanto gli Spartani in battaglia, da far loro ottenere una celebre vittoria. Il significato dell’episodio, probabilmente in parte esagerato, significa però che la bellezza della parola esula dalla bellezza del parlatore, mentre tuttavia non è del tutto irrelata alla bellezza della voce. Un oratore, per quanto bellissimo, elegante, facondo, che avesse una voce stridula o troppo bassa, o rauca, non trasmetterebbe agli ascoltatori la necessaria passione. Per Crasso, in sostanza l’oratore è un atleta della parola, come furono poi chiamati i celebri oratori francesi durante la Rivoluzione (detti, un po’ ironicamente, anche “tenori”).

Il fatto della voce, che sia alta, ma armoniosa, forte, chiaramente udibile, mai stridula, dote di natura che si può perfezionare (come, del resto, avviene nel canto che è ben più complesso), ma che c’è alla base o non c’è (chi ha voce bassa, rauca o stridula, può curarla sicuramente, ma mai tanto da apparire piacevole, solo meno spiacevole). Un aiuto, che nei tempi antichi non esisteva e che in parte veniva dato da una buona acustica in ambienti chiusi, ma pure aperti, se la disposizione degli edifici era tale da facilitare la diffusione del suono senza disperderlo, oggi è dato dal microfono, dall’altoparlante, da sussidi tecnici (in radio e televisione) che modulano la voce artificialmente, ma. per quanto si faccia, una pessima voce si tradirà comunque (ascoltando certi orribili dibattiti poi, oggi di moda, in cui tutti urlano, sovrapponendosi l’un l’altro e rendendosi reciprocamente incomprensibili, si verifica che, se la voce giusta, ben modulata, non c’è, tutte le soluzioni tecniche non servono a nulla). L’oratore è un po’ attore e un po’ cantante: nel suo discorso egli recita la propria parte, esprime se stesso, comunica le proprie aspirazioni ed i propri sentimenti, ma per essere piacevolmente ascoltato, egli deve pronunciare le cose appunto con un’arte data da attitudini spontanee, congenite, raffinate dall’esperienza e dallo studio.

Crasso, una volta fissate le doti dell’oratore ideale in generale, prosegue poi con il descrivere le doti dell’oratore politico, il quale non deve limitarsi a ricevere applausi e a suscitare entusiasmi, ma deve ottenere voti e sostegno concreto: “... non ci sono né diverbi né controversie che costringano a tollerare in teatro i cattivi attori come nel foro gli oratori incapaci. L’oratore deve procurare con cura non solo di accontentare coloro nei confronti dei quali ha precisi doveri, ma di suscitare ammirazione proprio in coloro che possono giudicare disinteressatamente… anche coloro che parlano molto bene e sono in grado di farlo con grande facilità e ricchezza espressiva, tuttavia se non provano un senso di paura quando si accingono a parlare e se non provano forte emozione nell’iniziare il discorso, mi dànno l’impressione di sfrontatezza… più un oratore è bravo… e più teme le insidie del parlare, l’esito incerto della sua orazione e le attese del pubblico…” (13).
Qui Crasso-Cicerone dimostra la sua profondità psicologica, basata su una lunga esperienza: il grande oratore, essendo animato da una viva passione in modo autocritico, non può restare indifferente né a ciò che dice, né al modo in cui lo dice, ma ancor meno di fronte ai possibili effetti rispetto alle reazioni del pubblico, che possono essere più o meno favorevoli o negative. Descrivendo se stesso, Crasso riconosce di manifestare il suo “timore” anche fisicamente, col pallore del viso ed un certo tremito, che tuttavia l’esperienza pratica sa tenere sotto controllo, ed entro certi limiti mascherare. Pur tuttavia, il pubblico deve sentire l’emozione dell’oratore, altrimenti essa non potrebbe trasmettersi al pubblico, ma tale emozione deve apparire per le cose da dire, piuttosto che per il timore di parlare (eventuali oppositori ne approfitterebbero per disturbare l’oratore onde intimidirlo ancora di più, soprattutto in sede politica).

Antonio conferma quanto osservato da Crasso con ulteriori osservazioni: “... noi siamo esposti a un giudizio ancora più severo quando parliamo: … siamo sotto esame; e, mentre di un attore che ha sbagliato un gesto, non si pensa subito che non sappia gestire, al contrario l’oratore nel cui discorso è stato rilevato un errore, incorre in una fama, se non eterna sicuramente ostinata, di ottusità…”(14).

Stabilite le qualità naturali necessarie all’oratore, Cicerone, per bocca di Crasso, espone poi la tecnica della retorica che, essendo già esaminata in altri autori senza differenze significative, ritengo utile omettere, onde evitare noiose ripetizioni anche perché poco utili all’aspetto estetico, e non meccanicamente tecnico, del tema che tratto. L’unico aspetto che può avere un certo interesse concerne l’esercitazione, la quale consente di aumentare la sicurezza e di rafforzare le doti naturali, soprattutto la modulazione della voce, l’atteggiamento, e così via, al fine di risultare più convincente (come ho già osservato nelle precedenti occasioni, non è tanto la possibilità di “persuadere”, quanto quella di mostrare in modo più efficace la propria “persuasione”; una retorica moderna non ha pretese di conversione degli altri, quanto di mostrare agli altri che si è effettivamente convinti di ciò che si dice, di ciò che si sostiene non come mero “slogan”, ma come prodotto di un ragionamento).

Il dialogo continua, con interventi vari, ma, sempre dal nostro punto di vista, è abbastanza ripetitivo e, pertanto, poco apprezzabile. Nel Libro II, Cicerone interviene direttamente rivolgendosi al fratello Quinto, con un commento che potrebbe apparire di scarso apprezzamento nei confronti dei personaggi storici che egli fa discutere, considerandoli non particolarmente colti. Tuttavia, non nega che le modalità della conversazione affrontano le tematiche dell’arte oratoria con una certa completezza. Riprende quindi il discorso, mettendolo in bocca ai personaggi, ma non vi è nulla di particolarmente nuovo. Vi ribadisce la necessità del coinvolgimento emotivo dell’uditorio, puntando così non tanto sulle sue capacità razionali, quanto sui sentimenti degli uditori. Ora, tale affermazione ha sicuramente una sua importanza: l’oratore, infatti, parlando in un tempo necessariamente limitato, né facendo una conferenza su argomenti specifici e scientifici, è costretto, volente o nolente, a puntare più sulle reazioni emotive degli ascoltatori, che non sulle loro capacità razionali, sia in sede politica, sia in sede giudiziaria. Gli stessi giudici - dice Cicerone - devono essere coinvolti dall’oratore, come avvocato di parte. In effetti, il giudice, ieri come oggi, giudica non tanto in base a coinvolgimenti psicologici, emotivi, inconsci, quanto ad un opportuno calcolo delle forze, sulla base del quale interpreta ed applica la legge (o la norma, più in generale), Se bastassero buone doti oratorie, avrebbe ragione il Manzoni nel suo celebre aneddoto sul giudice che dà ragione prima all’uno, poi all’altro, quindi al figlioletto che, voce della coscienza logica, gli esclude che possano aver ragione ambedue. E’ difficile pensare che giudici, generalmente ben smaliziati, si lascino indurre nelle loro decisioni da ragionamenti fini o da esclamazioni commoventi. Pensiamo ad esempio all’”Apologia di Socrate”: il testo, scritto da Platone sulla linea del discorso originale di Socrate stesso, non è privo di nessuna delle doti oratorie, né razionali, né emotive, né di ironia (e quindi di piacevolezza estetica), eppure la cicuta non gliela tolse nessuno: il fatto che egli, in quel momento, rappresentava la parte debole, quindi più facile da colpire, era un motivo più che sufficiente per mandarlo a morte. Se ciò vale per il primo processo documentato della storia (per quel che so), vale per tutti i successivi processi. Errano dunque, i teorici dell’oratoria che ritengono importante, nel giudizio, l’abilità eloquente, la capacità dimostrativa, l’acutezza argomentativa. Eppure Cicerone, che fu a suo tempo avvocato, accusatore e giudice, così fa dire ai suoi personaggi (nel caso specifico Antonio): “Strettamente connesso a questo tipo di eloquenza ce n’è uno diverso, che, in tutt’altro modo, scuote l’animo dei giudici e lo spinge all’odio o all’amore[addirittura !], li rende favorevoli alla condanna o all’assoluzione, li spinge al timore o alla speranza, alla simpatia o all’avversione… dal punto di vista dell’oratore è auspicabile che i giudici già di per se stessi nutrano nei confronti della causa sentimenti favorevoli ai suoi interessi [la visione, espressa da Cicerone, è l’esatto contrario del modello che si spaccia nelle aule di giurisprudenza e nelle opere teoriche, ma è di gran lunga più realistico, anche oggi, malgrado i due millenni trascorsi]… anch’io, quando mi appresto ad agire sull’animo dei giudici in una causa molto importante e incerta, concentro ogni mio pensiero nell’accurato studio di fiutare, con quanto più sagacia posso, i loro sentimenti, i loro pensieri, le loro aspettative… Nel caso invece che il giudice sia spassionato e neutrale, c’è più da fare: bisogna dar vita a ogni emozione con il discorso, senza l’aiuto della propensione naturale del giudice [il neretto è mio, per sottolineare il concetto di giudice comunque manovrabile, anche se inizialmente onesto ed imparziale]…” (15).

Importante è, però, che si aggiunge che è l’oratore in primo luogo a dover provare quei sentimenti: se facesse finta e basta, la sua espressione non avrebbe tale efficacia da trasmetterla al giudice. Più avanti, citando se stesso (ma è sempre Cicerone che sottoscrive), ricorda l’esigenza, nel corso dell’arringa o della requisitoria, di modificare lo stile (guai alla monotonia, guai a dimostrarsi sempre infuriato o sempre calmo, pur esaminando situazioni diverse: chi urla sempre o chi sussurra sempre, finisce per stancare il pubblico, tanto più se il discorso è lungo e complesso). Ancora, vengono esaminati i modi con cui coinvolgere emotivamente i giudici o il pubblico (anche far reagire il pubblico, che sussurra, si lamenta, o talvolta esce in esclamazioni, è un modo per far pressione sul giudice), ad esempio puntando sul disinteresse della persona difesa, sulla gelosia, sull’invidia (un corredo di “ottime” qualità per smuovere persone che dovrebbero essere del tutto indifferenti a simili emozioni), sul ridicolo (suscitare il riso per umiliare l’avversario), sull’ironia anche come uso di doppi sensi e giochi di parole.

Sempre saltando le considerazioni di carattere più tecnico, che qui consideriamo superflue ai fini del nostro argomento su temi estetici, Cicerone considera modello insuperabile nell’ironia proprio Socrate per piacevolezza e garbo, in cui scherzosità e serietà si affiancano e si armonizzano, ma elenca poi moltissimi altri esempi di personaggi della storia di Roma, tra cui Catone il Censore, celebri per le loro battute ironiche o sarcastiche: “... Il riso si sollecita frustrando le attese, deridendo il carattere altrui, rivelando in modo comico il proprio, con paragoni degradanti, oppure facendo dell’ironia o dicendo cose paradossali o censurando la stupidità. Pertanto, colui che vorrà esprimersi in modo spiritoso, dovrà assumere un’indole, per così dire, e abitudini consone ai vari generi, in modo tale da saper adeguare anche l’espressione ai vari tipi di facezie. E quanto più uno è serio e severo…, tanto più sapide solitamente risultano le sue battute…” (16).

Sempre secondo il grande oratore, le battute di spirito sono molto importanti nei discorsi al popolo, che richiedono brevità, sintesi, conoscenza della psicologia di massa, ovvero prevederne le reazioni, in modo da conquistarne la simpatia o, almeno, evitarne la contestazione che può seppellire colui che parla in un coro potentissimo di urla e di fischi (oggi, almeno; non so se al tempo dei Romani si usasse fischiare gli oratori). Dopo altre disquisizioni di carattere tecnico, si passa al Libro III, all’inizio del quale si rievoca la morte, frattanto avvenuta, di Crasso, esprimendo dolore per questo, ma anche il conforto che non avesse potuto vedere l’aggravarsi delle guerre civili. Si riprende poi il dialogo. Per Crasso, l’unione tra contenuto e forma risulta imprescindibile anche nel discorso: “...infatti ogni orazione è fatta di contenuto e di parole: le parole non trovano collocazione se viene a mancare il contenuto, e il contenuto non si può esprimere con chiarezza eliminando le parole [oggi errano anche coloro che sostengono che certe immagini sono più significative delle parole, dimenticandosi che già una tale affermazione è costituita da parole. Se, infatti, ci limitassimo a vedere immagini fotografiche, senza didascalie, o immagini in movimento senza l’accompagnamento sonoro, non capiremmo nulla dei fatti in corso pur trattandosi di personaggi già conosciuti. Basta provare a togliere l’audio: che cosa si capisce di quanto si vede?]. credo che i grandi del passato, che avevano una visione mentale più ampia, abbiano spinto la loro comprensione ben al di là di quanto possa farlo il nostro ingegno: essi affermarono infatti che quanto esiste sopra e sotto di noi è un tutto unico, tenuto insieme da un’unica forza e armonia della natura, Non vi è nessun genere di cose che possa esistere da solo, separato dagli altri, e che non sia indispensabile agli altri per conservare la loro essenza e la loro eternità…” (17).

Cicerone mette così in bocca a Crasso una giustificazione ontologica panteistica per la sua concezione estetica, sul rapporto stretto ed ineliminabile tra forma e contenuto nell’arte del discorso (e, aggiungerei io, in qualunque forma d’arte, dove ad esempio il termine “arte astratta”, pretendendo di rappresentare solo una forma, un’astrazione senza un determinato contenuto, è tutto sommato inapplicabile o contraddittorio, in quanto il contenuto, seppure non corrispondente ad una realtà concreta, è pur sempre sussistente come disegno, come rappresentazione grafica, come colore, e così via). Ancora, Crasso critica i contemporanei, i quali, non sapendo cogliere l’unità della realtà, affrontano i problemi suddividendoli ed analizzandoli in modo da risultare dispersivo, e quindi rendendoli irrisolvibili. Prosegue sottolineando che, nell’eloquenza, esistono sicuramente stili diversi, ma devono comunque essere tutti piacevoli, mostrando come anche in altre arti ciò avvenga, sollecitando il piacere di tutti i sensi; elogia la dignità ed il garbo di Catulo, la celebre espressione di Cesare, allora del tutto nuova, l’accuratezza e precisione di Cotta, l’impeto di Sulpicio, la forza e la veemenza di Antonio (sono gli interlocutori nel dialogo). Tornando alle origini, sottolinea le comuni radici tra oratoria e filosofia, specialmente nella Grecia classica, ritorna su Socrate, che considera un modello sotto ambedue gli aspetti. Riguardo alla filosofia più idonea in quel momento all’arte oratoria, Cicerone respinge quella degli epicurei, degli stoici, soffermandosi su peripatetici (aristotelici) ed accademici (platonici, a loro volta divisi in due scuole). Cicerone qui adotta una curiosa metafora, sostenendo che da uno stesso “fiume”, un ramo sfociò nell’Adriatico, e fu quello dei filosofi, l’altro nel Tirreno, e fu quello degli oratori “etrusco, barbaro, pieno di scogli e pericoloso” (18): qui si apre come un lume sul rapporto, quasi ignorato, tra cultura etrusca e cultura romana. In una forma criptica, Cicerone sembra sostenere che l’oratoria romana, almeno nelle sue radici, non ebbe come modello quello ellenico, ma quello etrusco. La cosa appare di notevole interesse perché sulle arti letterarie etrusche conosciamo pochissimo, in parte perché già anticamente distrutto (Roma quasi si vergognava di dovere tantissimo all’Etruria, quasi un matricidio psicologico), in parte perché perduto successivamente (ricordo che ancora l’imperatore Claudio scrisse un’opera sulle antichità etrusche).

L’esposizione di Crasso procede ancora lungamente con un’analisi dei vari aspetti e delle parti del discorso che più o meno ricalcano quanto detto dai rètori precedenti e che ritengo inutile ripetere qui (come si è detto la monotonia annoia l’ascoltatore e il lettore, ed anch’io devo rispettare questa regola evidente, se non voglio che chi mi segue, passi a cose più amene…). Verso la conclusione si ribadiscono le analogie tra attore ed oratore, per quanto riguarda certi aspetti: in fin dei conti, l’oratore non è che un attore che recita una parte specifica riguardante però fatti reali in corso, e non situazioni del tutto inventate o in parte romanzate, come farebbe un attore. Così avviandomi alla conclusione di quest’opera, ritengo opportuno riportare le parole stesse di Cicerone, che mi sembrano ineguagliabili per chiarezza concettuale e finezza psicologica: “Tutte queste emozioni devono essere accompagnate dal gestire, ma non da quello teatrale…, bensì… che chiarisca la situazione e il pensiero in generale, non con la mimica [punto assai interessante questo, di fronte ad oratori celebri del ‘900, pensiamo ad un Mussolini o a Hitler, ed altri che molto puntavano sulla mimica: Hitler arrivava anche a vere e proprie smorfie. L’oratore deve mantenere dignità al suo volto, non far “boccacce”, appena gli occhi o qualche cenno del viso devono esprimere i moti dell’animo; è sulla voce che bisogna contare e sul gesto non eccessivo] ma con semplici cenni, e questo portamento del busto vigoroso e virile preso… da chi si esercita con le armi e nella palestra. I movimenti delle mani devono essere meno espressivi, con le dita che accompagnano le parole e non le sostituiscono; il braccio, quasi come l’arma dell’orazione, deve essere ben proteso in avanti; nei momenti di maggior tensione… si batterà il piede. L’elemento fondamentale è però l’espressione del viso, che a sua volta dipende completamente da quella degli occhi… L’actio scaturisce direttamente dall’anima; il volto è lo specchio dell’anima, e gli occhi ne sono gli interpreti, perché essi sono la sola parte del corpo capace di dare espressione diversa a tutte le passioni e a tutte le loro sfumature… Perciò c’è bisogno di grande senso della misura nel muovere gli occhi: non si deve alterare troppo l’espressione del volto, per non cadere nel ridicolo o in qualche smorfia… usare gli occhi, assumendo un’aria severa, ora mite, ora corrucciata, ora ilare…(...) l’espressione del viso è la cosa più importante dopo la voce: ed essa dipende dagli occhi…(...) Senza alcun dubbio… riveste il ruolo più importante la voce. Dobbiamo in primo luogo augurarci di averne e poi prendercene cura, qualunque essa sia. Il modo migliore di curare la voce non rientra affatto nei precetti che vi sto esponendo tuttavia ritengo che essa sia da coltivare con molta attenzione… Per preservare la voce niente è più utile del frequente mutamento di tono, e niente è più dannoso di una tensione continua…(...) In ogni voce c’è un tono medio, ma ciascuna voce ha il suo; l’innalzare gradatamente la voce dal tono medio è utile e piacevole (iniziare a parlare gridando ha infatti un che di rozzo), ed è anche benefico per conferire forza alla voce stessa. C’è poi un punto estremo del forzare la voce, che si trova però più in basso della nota più acuta… Di contro… c’è il punto estremo di abbassamento, che si raggiunge scendendo per così dire una scala di toni. Questa varietà e questi passaggi ella voce attraverso tutti i toni salvaguarderanno la voce e aggiungeranno fascino all’actio…”(19).

Potrebbe essere interessante, ma io non sono in grado di farlo con la dovuta competenza, confrontare queste regole d’uso della voce con quelle più specifiche e complesse del canto, ma sarebbe da sottolineare una notevole differenza: mentre l’oratore pronuncia il suo discorso, e dà egli stesso l’andamento dei toni e del volume necessari (o che tali ritiene), nel canto le regole vengono date dall’andamento musicale di base, che, se può sicuramente essere variato nel tempo e nel volume, non può essere variato nella successione matematica delle note. Con queste osservazioni e con qualche inevitabile convenevolo, il dialogo si conclude.

Personalmente, a commento conclusivo e riassuntivo, osservo i seguenti punti fondamentali:

1) la capacità oratoria è un elemento essenzialmente congenito della persona, una dote naturale, che è caratterizzata dall’abilità di impostare un discorso in modo logicamente ordinato e “piacevole” (non nel senso che diverta necessariamente, ma che sappia conquistare l’interesse degli ascoltatori);
2) tale capacità è rafforzata dalla dote naturale di una voce forte e gradevole, non stridula e non monotona, che sappia variarsi di tono, di volume e di ritmo;
3) non conta la bellezza fisica dell’oratore o la sua imponenza, ma l’atteggiamento, che deve “imporsi” psicologicamente agli ascoltatori, dimostrando autorevolezza;
4) i contenuti del discorso (che non sia una conferenza di natura scientifica, ovviamente) devono essere esposti in maniera stringata, sintetica, tale da esporre concetti fondamentali, non come purislogans propagandistici, ma come conclusioni di un ragionamento implicito;
5) le doti naturali si affinano con l’esercizio e l’esperienza (soprattutto, si intende l’esperienza di parlare ad un pubblico, cosa questa che, le prime volte, intimidisce, anche di fronte a bambini, come ben sanno gli insegnanti); oggi i nostri mezzi tecnici ci consentono di osservarci con l’occhio di un estraneo, nel senso che l’oratore non deve fare esercitazioni artificiose davanti ad uno specchio, immaginandosi di essere di fronte ad una folla, bensì farsi filmare senza che lo sappia, in una situazione reale, quindi osservarsi criticamente, onde eliminare gli inevitabili, ma più vistosi, difetti di atteggiamento e di pronuncia. La perfezione è impossibile e sarebbe, di fatto controproducente, perché andrebbe a danno della naturalezza e della personalità del discorso: i difetti, se non eccessivi, dànno comunque un carattere personale all’eloquenza dell’oratore. Se tutti fossimo perfetti, tutti saremmo uguali e, dunque, ripetitivi e noiosi: meglio dunque difetti limitati e perdonabili, che non la monotonia artificiosa.

L’altra opera, che qui esaminerò ben più sinteticamente, viene attribuita a Cicerone, ma molti non la considerano tale: non starò ad analizzare se l’attribuzione abbia o non abbia una qualche validità, ma la cosa più probabile è che “La retorica a Gaio Erennio” , se non direttamente ciceroniana, sia di qualche suo alunno, seguace ed ammiratore, come spesso accadeva nell’antichità. Generalmente questi testi di falsi o dubbi autori sono preceduti da uno “pseudo”, come vedremo per Longino “Sulsublime”; nel caso di questo testo di retorica, l’attribuzione è diretta e, seppure il commentatore Filippo Cancelli, la escluda, pur tuttavia il nome dell’autore si riferisce al grande oratore, filosofo e console romano. In sincerità, io nulla posso aggiungere su questo, per cui rinvio chi ne fosse interessato alla lettura delle presentazioni del testo, nell’edizione citata alla nota (2). Chiarito questo problema, passo ad una analisi sommaria: il manuale di retorica si presenta in forma di lettera, non di dialogo come l’opera precedente, e si distingue in quattro libri, il primo dei quali espone i generi delle cause e dei conseguenti stili, secondo il modello greco, già visto in Aristotele e successori (dimostrativo, deliberativo e giudiziale). Il compito dell’oratore è la persuasione (20), ed il suo discorso deve essere ordinato secondo le tappe dell’invenzione, della disposizione, dell’elocuzione, della memoria, della pronuncia.

Già queste distinzioni hanno un che di artefatto: mi ricordano le regole che a noi bambini, circa cinquant’anni fa, ci davano per la stesura di un tema, cominciando da una necessaria introduzione, seguita dall’esposizione e dalla conclusione, come se, senza aver seguito questa rigida tripartizione, lo svolgimento non valesse nulla. Il bello stile, invece, richiede spesso di entrare nel mezzo del discorso senza eccessive premesse: il guaio è che queste regolette, che in certa misura sono necessarie al fine di dare ordine al discorso, rischiano però di bloccare lo scrittore in erba, pensando di dover fare chissà che. Personalmente, ho cominciato ad imparare a scrivere (o, almeno, lo spero…) quando non mi sono più curato di far contenti i docenti di italiano, scrivendo come mi veniva spontaneo.

Il II Libro si occupa della causa del discorso, soprattutto in sede di dibattimento giudiziario. Il III Libro riguarda parti successive del discorso, come la disposizione, la pronuncia e la memoria. Il IV Libro è rivolto all’elocuzione, sotto l’aspetto della forma, ovvero quella estetica, ed è pertanto l’unico di cui mi occuperò in modo diretto. L’Autore sostiene l’esigenza di affrontare l’aspetto estetico, non con esempi altrui frutto di una modestia più o meno sincera, ma comunque inefficace, ma con esempi propri: “... Sostengo dunque che peccano quelli perché usano gli esempi degli altri, ancor più sbagliano perché traggono gli esempi da molti (autori)… “ (21).

Secondo l’Autore, gli esempi altrui non sono rispondenti all’arte, sono spesso citati forzatamente e in modo inadatto. E’ altresì opportuno non adoperare le antiche dizioni greche, ormai lontane dall’uso, e dunque ostiche. Distingue così la precettistica in due parti, quella sulle forme dell’elocuzione e quella dei caratteri che deve avere. Malgrado le promesse, egli tuttavia non sembra fornito di particolare originalità in queste suddivisioni, distinguendo gli stili come elevato, medio e umile. Il primo è caratterizzato da armoniosa struttura con nobili parole, il medio - ovviamente - si pone ad un livello più basso, ma senza essere pedestre, l’umile corrisponde all’incirca al parlare quotidiano, seppure in forme corrette. Siccome la lingua batte dove il dente duole, e nel suo caso come in quello di molti altri retori, ci si riferisce al discorso giudiziario, ecco che ce ne dà un esempio: “... chi infatti è di voi, o giudici, che possa immaginare una pena abbastanza adeguata contro colui che ha meditato di abbandonar la patria ai nemici? quale delitto può compararsi a questo misfatto, quale supplizio può trovarsi proporzionato a questo crimine? Gli antenati comminarono le pene massime contro quelli che avessero usato violenza a un uomo libero, o fatto oltraggio a una matrona..., non riserbarono a questo trucissimo ed empio misfatto, una pena particolare…” (22).

E’ pur curioso che, dopo aver fatto seguito con una serie di esclamazioni (23), tuttavia non sembra raggiungere né elevatezza, né ragionevolezza e conclusività del discorso. L’esempio che segue, in stile medio, non cambia nulla nei contenuti, ma presenta il delitto in forma più discorsiva: “... vedete, giudici, contro chi facciamo la guerra. Con alleati i quali sono stati soliti combattere per noi e insieme con noi difendere con valore ed energia il nostro impero… Essi, avendo deciso di farci la guerra, domando, qual era la cosa, fidando nella quale tentassero di intraprendere l’ostilità, mentre comprendevano che la stragrande maggioranza degli alleati sarebbe rimasta nella osservanza [del rapporto di amicizia]?” (24)

Dopo una serie di arzigogoli, sinceramente di dubbio gusto, risponde a se stesso, ma per nulla dimostrando di che si tratta, che questi alleati hanno tradito per la ragione sostenuta dall’oratore, senza che questa ragione si sappia. Segue poi un esempio di stile umile, riguardante un tema ancora inferiore, ovvero un litigio ai bagni pubblici. Ora, prima di mostrare questo esempio, ritengo necessario osservare che qui l’Autore si contraddice, perché dopo aver parlato di stili, in realtà parla di contenuti, da quello più rilevante (il tradimento della patria da parte di un cittadino), a quello meno rilevante (il tradimento di un alleato), a quello di rilievo infimo (un litigio al bagno). eppure, lo stile avrebbe dovuto riguardare un medesimo contenuto, ovvero come poteva essere affrontata la questione tradimento della patria, con tono elevato, con tono medio e con tono minimo, perché allora la differenza si sarebbe potuta notare meglio. Forse, proprio in questa rozzezza di esposizione, potrebbe essere chiara la non attribuibilità a Cicerone dell’opera (c’è una notevole differenza tra“L’Oratore” “La Retorica” proprio nella capacità argomentativa e nelle esemplificazioni). 

Vediamo dunque qualche riga dell’esempio: “... come infatti questi per caso fu giunto ai bagni, dopo che si fu asperso, cominciò a massaggiarsi; poi, quando parve il momento di scendere nella vasca, eccoti, tutt’a un tratto, costui: ‘Ehi – dice – giovanotto, i tuoi servi mi hanno or ora picchiato; bisogna che tu me ne soddisfaccia’. Questi, a quell’età, per essere stato chiamato da uno sconosciuto fuor dell’abitudine, arrossì…” (25).

Non è necessario continuare la citazione: il più giovane si sente offeso di essere richiamato con urli in un luogo pubblico. L’esempio finisce senza conclusione. Diciamo, dunque, che anche tale esempio, per quanto riferito ad un semplice litigio, non pare molto confacente: infatti, il vero Cicerone, se non è l’Autore di questo scritto, avrebbe potuto obiettare che ogni argomento può essere trattato nei tre stili, o anche in uno stile misto dei tre, con carica ironica o derisoria, oppure amplificativi, a seconda delle necessità. Certamente, lo stile è condizionato dall’argomento, ma non a tal punto da dover essere utilizzato in modo rigido. L’Autore, infatti, poi aggiunge, ma non certo coerentemente che: “... Bisogna poi fare attenzione, che, mentre perseguiamo queste forme di stili, non cadiamo nei difetti prossimi e connessi. Infatti, allo stile elevato, che è lodevole,, è vicino quello, che è da fuggirsi, il quale… si denominerà gonfiato… così il discorso elevato spesso agli sprovveduti pare sia quello che è turgido e ampolloso, quando qualcosa è detto o con neologismi o con arcaismi… o con più altisonanti termini di quanto richieda il soggetto…” (26)

In effetti, un argomento elevato deve essere trattato, preferibilmente, con stile e toni elevati, ma può pure essere trattato con sobria semplicità, se tale modo corrisponde ai sentimenti dell’oratore o dello scrittore, o se il pubblico, di un certo tipo, lo capisce meglio. Viceversa, un argomento pedestre, trattato in tono elevato, diventa ridicolo, e ciò potrebbe essere fatto a scopi ironici (gonfiare prima, per sgonfiarlo poi). Sicuramente, pensando agli esempi portati dall’Autore, il tradimento della patria e una discussione ai bagni non sono argomenti trattabili nel medesimo stile e negli stessi toni, quantunque si possano usare stili misti, in modo da dare varietà al discorso (ad esempio, due oratori diversi esporranno lo stesso evento l’uno sottolineando certi aspetti e calcando certi fatti, l’altro potrebbe fare il contrario).

Per l’Autore, dopo aver tratteggiato la questione degli stili in forma eccessiva o caricata, sostiene che una perfetta elocuzione deve possedere un linguaggio puro e schietto, fornito di latinità (ovvero, proprietà di linguaggio, senza uso di barbarismi) e chiaro, ovvero privo di solecismi, termini che non si accordano con i precedenti. Il discorso deve essere altresì chiaro, usando termini usuali, non di difficile comprensione (ciò val bene negli stili medio ed umile, ma non si accorda con lo stile elevato o solenne, che tende viceversa ad un linguaggio più raro, almeno per l’ascoltatore o il lettore comune: è evidente che molto dipende dal tipo di pubblico). Consiglia di non abusare troppo di termini con vocali che, a suo parere, rendono l’espressione sgraziata: per capire questo, è impossibile citare l’esempio in italiano, per forza di cose; ritengo più opportuno farlo in latino (e poi riportarne la traduzione): “Bacae aeneae amoenissime impendebant “ (palline bronzee pendevano gradevolissimamente) “O Tite, tute, Tatei, tibi tanta, tyranne, tulisti, / et hic eiusdem poetae…” (O Tito Tazio, tu proprio, tiranno, ti gravasti di sì gran mali, e quest’altro dello stesso poeta)(26).

L’Autore condanna sia il sovraccarico di vocali, come nel primo verso, sia l’eccessiva ripetizione di una medesima consonante, come allitterazione. Prosegue col segnalare come si possa raggiungere la bellezza, che orna, insieme alla varietà, il discorso: la varietà appare così fondamento imprescindibile della bellezza. Spiega poi alcune figure retoriche, come l’epanafora o anafora, che consiste nel ripetere lo steso inizio, con scopo rafforzativo. Perché non risulti noioso, dovrà esser pronunciato in un crescendo di tono e volume, perché altrimenti si tratterebbe di pura ripetizione. L’antistrofe o epifora è la ripetizione di una parola, ma alla fine del discorso, quasi come un riassunto. La pronuncia dev’essere sempre in crescendo. Segue con ulteriori esempi di figure retoriche, già del resto viste in precedenti occasioni e di scarso interesse. Ricade ancora una volta nel discorso giudiziario, questa volta con un lungo esempio sul comportamento poco casto di una donna: anche qui non sembra il caso di soffermarsi nelle citazioni, in quanto abbastanza banale (qui il filosofo Gorgia, con ben altro spirito e finezza, psicologica ed argomentativi, aveva difeso Elena, dall’accusa di aver provocato una guerra col suo peccaminoso comportamento). Figure ed esempi verbali sono numerosissimi, ma ai nostri fini di scarsa utilità: il difetto di questo tipo di retorica, del quale l’Autore aveva pur preteso di voler dare un’aria di originalità, è quello di essere puramente classificatorio (tassonomico). Irrigidendo il discorso in formule prestabilite, invece di abbellirlo, lo appesantisce. Alla fine, chi volesse applicarlo, finirebbe per renderlo rigido e noioso: assomiglia molto al metodo giuridico, nell’ambito del quale del resto nasce. Scarsa capacità di vita e sterilità estetica sono le conseguenze di un simile modo di procedere. Ben diverso era stato il discorso di Cicerone nell’”Oratore”, dove si vedeva una certa vivacità artistica anche nei punti più tecnici. Quindi, forse più che in un linguaggio meno sciolto, l’appartenenza ad uno scrittore diverso da Cicerone è data proprio dalla diversa mentalità ed impostazione, anche se la cosa può essere in parte giustificata trattandosi di un manuale. Eppure, se si fosse voluto insegnare ad un giovane il gusto per gli stili belli, sarebbe stato più opportuno sollecitarlo a leggere grandi scrittori, piuttosto che rimpinzarlo di formule rigide. E’ proprio a causa di una tale mentalità, incapace di uscire dagli schemi fissi o di tentare almeno di renderli più flessibili, che la letteratura latina comincia una sua inarrestabile decadenza nei secoli dell’Impero, e la retorica apparire rigida e falsa; per poter risollevarsi, occorrerà arrivare al Basso Medioevo e alle letterature neolatine o “volgari”.

NOTE :
  1. Utilizzo, anche per maggior reperibilità, l’edizione della BUR (Milano, 2006), con testo a fronte, a cura di Emanuele Narducci, con note di Ilaria Torzi e Giovanna Cettuzzi, che sono anche le traduttrici, insieme a Mario Martina e Marina Ogrin. L’opera è del 55 a. C. .
  2. Qui il riferimento è all’edizione negli Oscar Mondadori, a cura di Filippo Cancelli che ne è anche il traduttore, sempre con testo a fronte (Milano, 1998) .
  3. Sull’Oratore”, ed. cit., pag. 127 .
  4. Si tratta di un riferimento, non solo generale, ma anche autobiografico. Egli stesso si recò in Grecia, studiando l’oratoria alla Scuola di Molone, che cercava di mediare tra le due tendenze quella asiana (ampollosa, diremmo “barocca”) e quella più lineare e semplice di Lisia .
  5. Povero Catone (il maggiore, il Censore, il nemico assoluto di Cartagine), se avesse visto e sentito i politici d’oggi, né onesti, né esperti nell’arte del dire ! Pensiamo alla frase di moda che politici, sindacalisti e giornalisti adottano imitandosi l’un l’altro come pappagalli deficienti: non si usa dire più il verbo “distribuire”, riguardo ad esempio agli orari, al denaro o alle persone, ma “spalmare” (horridum auditu !!), come se si trattasse di burro, marmellata, crema, o stracchino, da mettere su una fetta di pane (giorni fa, un’agente di polizia stradale, una donna ufficiale, è uscita col dire che i morti in incidenti automobilistici erano “spalmati”in un determinato periodo: poveri morti, oltre che maciullati fra le lamiere, vengono poi addirittura “spalmati” come si fa con le fette imburrate ed arricchite di marmellata…) ! Io penso che, quando nei loro avelli questi grandi oratori esperti nell’arte del dire ascoltano simili frasari, si rivoltano facendo scricchiolare le loro ossa e i loro crani, con un selvaggio “rumor di croste”. Qualcuno, come Ugolino, si metterà a rosicchiare il cranio del vicino; qualche altro, pur se già ridotto in cenere, ruoterà i propri atomi, le proprie residue molecole in giri vorticosi e stridenti, in modo da far sentire il loro coro di protesta fin nell’alto dei cieli, perché Dio mandi giù qualche nuovo Diluvio o qualche bombardamento di pece, zolfo e fuoco, al fine di annichilire questi emettitori di rumori e di frastuoni ! 
  6. ibidem, pag. 131 . 
  7. ibidem, pag. 133. Questo criterio ricorda in positivo quello espresso da Wittgenstein in forma negativa: “Di ciò di cui non si può parlare, occorre tacere”. L’asserzione in sé appare ovvia, soprattutto se tradotta alla lettera. Meglio sarebbe dire : “Su ciò che non si conosce, occorre tacere”. In effetti, quanta gente parla e a lungo di cose che non conosce affatto, riportando pedissequamente ciò che ha letto sul giornale o sentito su qualche mezzo audiovisivo. Soprattutto, se le cose non vengono rielaborate criticamente e comparate con altre informazioni e fonti di informazione, si finisce per sproloquiare, emettendo suoni piuttosto che parole e, attraverso esse, concetti e cose . 
  8. ibidem, pag. 155 .
  9. ibidem, pag. 167 .
  10. ibidem, pag. 171 .
  11. ibidem, pag. 191 .
  12. ibidem, pag. 193 .
  13. ibidem, pag. 197 . 
  14. ibidem, pag, 199 .
  15. ibidem, pagg. 429 – 431 .
  16. ibidem, pag. 517 .
  17. ibidem, pag. 585 .
  18. ibidem, pag. 621 .
  19. ibidem, pagg. 735 – 739 .
  20. Pensiamo alla celeberrima, ed oggi ipergonfiata tesi incompiuta di Carlo Michaelstaedter, il quale, da bravo ragazzo, contrappose invece la persuasione alla “rettorica”, come se le due cose dovessero essere completamente diverse, secondo uno spirito, a sua volta del tutto retorico, che la retorica sia cosa falsa e negativa. Ora, la retorica non è altro che uno strumento, che può essere bene o male adoperato; non è buona o cattiva in sé. Ogni volta che vogliamo dare regole (e non possiamo non darle, perché altrimenti il parlare risulterebbe incomprensibile ed intrasmissibile) al nostro discorso, facciamo della “retorica”. L’ingenuità o l’errore degli antichi non era di crearsi una retorica, anche se eccessiva nel suo formalismo, ma nell’illusione, più volte da me sottolineata a costo di annoiare il lettore, che essa possa “persuadere”, mentre può limitarsi soltanto ad “interessare” l’ascoltatore, il quale può di sua spontanea iniziativa approvare, disapprovare o restare incerto sui contenuti proposti dall’oratore .
  21. M. Tullio Cicerone, “La Retorica a Gaio Erennio”, ed. cit., Libro IV, pag. 189 .
  22. ibidem, pag. 197 .
  23. Veramente, il testo in latino presenta dei vocativi che non sono esclamazioni, cioè “O”; il traduttore li trasforma in esclamazioni “oh”, il che rende il testo ancora più pesante. E’ grave, per un traduttore confondere il vocativo (che chiama un soggetto), con l’esclamativo che serve ad esprimere i sentimenti (di meraviglia, di dolore, di stupore) di chi parla. L’esclamativo può restare da solo, perché è espressivo, il vocativo non può sussistere da solo: questo un traduttore dovrebbe saperlo, ma evidentemente non lo sa (cfr. pagg. 198 -199) .
  24. ibidem, pag 199 .
  25. ibidem, pagg. 201 - 203 .
  26. ibidem, pagg. 208 – 209 .
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