mercoledì 6 febbraio 2013

L'attualità nella Storia della Colonna Infame - del Manzoni. Il passato che non ha tempo e anche ai giorni nostri si mostra presente più che mai...

Saggio di Gilberto M.


Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d'aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d'aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de' supplizi, la demolizion della casa d'uno di quegli sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s'innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un'iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell'attentato e della pena. E in ciò non s'ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile. (Alessandro Manzoni, Storia della Colonna Infame - Introduzione -)

Del Manzoni si ricorda il Romanzo, mentre pochi hanno letto una delle sue opere più interessanti: la Storia della Colonna infame. Si tratta del processo agli untori Gian Giacomo Mora e Guglielmo Piazza. Venivano chiamati untori coloro che la fantasia popolare e il pregiudizio nato dalla suggestione collettiva, si riteneva propagassero la peste e altre pestilenze mediante artifici. Si riteneva che questi individui cospargessero i luoghi con cui una persona entrava spesso in contatto - come le maniglie delle porte, i muri, i passamani e quant’altro - di una sostanza giallastra per contagiare gli abitanti delle città. Una strana capacità, tenuto conto che avrebbero dovuto maneggiare qualcosa che poteva contagiare anche loro. Agli untori veniva attribuita la causa del diffondersi della peste, provocando nei loro confronti una persecuzione simile alla caccia alle streghe. Nella Storia della Colonna Infame, Manzoni non solo ricostruisce con intento storico e documentaristico tutto il processo fondato soltanto sul pregiudizio e sulla fantasia popolare, ma dimostra una capacità analitica di tipo antropologico, addebitando il colossale errore giudiziario non tanto all’uso della tortura (come invece nel secolo precedente Pietro Verri aveva denunciato come causa della condanna degli innocenti -1-) che all’epoca (XVI secolo) era prassi normale di indagine per accertare le responsabilità e come metodo per cercare la verità nell’imputato di un delitto.

-1- Pietro Verri (1728-1797) si propose, come indica il titolo medesimo del suo opuscolo, di ricavar da quel fatto un argomento contro la tortura, facendo vedere come questa aveva potuto estorcere la confessione d'un delitto, fisicamente e moralmente impossibile. E l'argomento era stringente, come nobile e umano l'assunto. Ma dalla storia, per quanto possa esser succinta, d'un avvenimento complicato, d'un gran male fatto senza ragione da uomini a uomini, devono necessariamente potersi ricavare osservazioni più generali, e d'un'utilità, se non così immediata, non meno reale. Anzi, a contentarsi di quelle sole che potevan principalmente servire a quell'intento speciale, c'è pericolo di formarsi una nozione del fatto, non solo dimezzata, ma falsa, prendendo per cagioni di esso l'ignoranza de' tempi e la barbarie della giurisprudenza, e riguardandolo quasi come un avvenimento fatale e necessario; che sarebbe cavare un errore dannoso da dove si può avere un utile insegnamento. L'ignoranza in fisica può produrre degl'inconvenienti, ma non delle iniquità; e una cattiva istituzione non s'applica da sé. Certo, non era un effetto necessario del credere all'efficacia dell'unzioni pestifere, il credere che Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora le avessero messe in opera; come dell'esser la tortura in vigore non era effetto necessario che fosse fatta soffrire a tutti gli accusati, né che tutti quelli a cui si faceva soffrire, fossero sentenziati colpevoli. (Alessandro Manzoni, Storia della Colonna Infame - Introduzione -)

Il tratto di assoluta modernità del Manzoni – ma forse sarebbe opportuno parlare di attualità – è dato da una analisi non ideologica (proprio lui che fa della morale cattolica il suo stendardo), una disamina del processo che dimostra che per quei giudici che condannarono a una morte atroce non esistono attenuanti di sorta, né facendo riferimento al contesto storico e alla mentalità dell’epoca e neppure concedendo loro che l’uso della tortura - che allora era di norma - potesse averli in qualche modo indotti in errore. Il testo è tanto più attuale per il fatto che - nonostante i travisamenti e le critiche degli storici che si sono variamente appellati a uno spirito dei tempi di cui il Manzoni non avrebbe tenuto conto – la Storia della colonna infame risulta un’opera senza tempo, aere perennius, per quel suo argomentare lucido, stringente, senza infingimenti, sorretto da un senso morale che non indulge al compromesso. Le critiche al Manzoni sono rivolte a una presunta visione storiografica di cui lo storico si fa paladino e vestale, connotate da una sorta di relativismo per il quale ogni fatto è inquadrato nella sua epoca e dunque l’autocentralità è il solo elemento di decodifica dei caratteri che gli sono propri. Tale interpretazione vagamente deterministica riduce il giudizio storico a individuare i nessi tra i fatti senza ulteriore valutazione, fa della storia un puro esercizio accademico.

Ma veniamo alla storia, anzi alla cronaca di quei fatti a Milano del giugno 1630 e di quello sciagurato processo che ne seguì.

La mattina del 21 di giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi, per disgrazia, a una finestra d'un cavalcavia che allora c'era sul principio di via della Vetra de' Cittadini, dalla parte che mette al corso di porta Ticinese (quasi dirimpetto alle colonne di san Lorenzo), vide venire un uomo con una cappa nera, e il cappello sugli occhi, e una carta in mano, sopra la quale, dice costei nella sua deposizione, metteua su le mani, che pareua che scrivesse. Le diede nell'occhio che, entrando nella strada, si fece appresso alla muraglia delle case, che è subito dopo voltato il cantone, e che a luogo a luogo tiraua con le mani dietro al muro. All'hora, soggiunge, mi viene in pensiero se a caso fosse un poco uno de quelli che, a' giorni passati, andauano ongendo le muraglie. Presa da un tal sospetto, passò in un'altra stanza, che guardava lungo la strada, per tener d'occhio lo sconosciuto, che s'avanzava in quella; et viddi, dice, che teneua toccato la detta muraglia con le mani.  (Alessandro Manzoni, Storia della Colonna Infame - capitolo I -)

Qui abbiamo uno degli elementi che generalmente vengono chiamati indiziari. Di fatto in un contesto - (in quegli anni l’imperversare della peste a Milano) o un delitto di qualsiasi altra natura - ogni evento che altrimenti potrebbe risultare insignificante suscita il sospetto, diviene un elemento amplificato e amplificabile. L’azione di andar rasente a un muro (quel giorno come si vedrà pioveva) e di scrivere su un pezzo di carta innesca una serie di illazioni che portano rapidamente a immaginare degli scenari criminali. Va detto che a questa stregua qualsiasi azione, anche la più innocente è suscettibile di una interpretazione sospetta, per non dire di prova di un delitto, quando il contesto la rende in qualche modo integrabile in una conclusione a cui si è giunti preventivamente: “mi vien in pensiero se a caso fosse uno de quelli che, a’ giorni passati, andauano ongendo le muraglie”. Se parto da una presunzione di innocenza un fatto mi apparirà insignificante, un mero elemento che non intrattiene alcun significato con un delitto in quanto estraneo e senza peso. Ma se presumo che qualcuno sia colpevole di qualcosa, lo stesso fatto sarà colorato da una luce sinistra. La convinzione di colpevolezza farà alla fine precipitare una serie di fatti irrilevanti come una cascata di elementi di prova alla luce di un teorema. L’altro elemento sul quale occorre por mente locale è in questo caso la diceria popolare, la suggestione di una donna che in perfetta buona fede crede di ravvisare qualcosa di abominevole: “mi viene in pensiero se a caso fosse un poco uno de quelli che, a' giorni passati, andauano ongendo le muraglie”. Qui abbiamo un elemento duplice di riflessione.  

a) il carattere soggettivo della testimonianza dove la percezione è già carica dei vissuti e delle credenze. Ancora oggi, nonostante gli studi di psicologia della gestalt non a tutti appare chiaro che il testimone non è latore di una verità oggettiva, anche quando è in perfetta buona fede; vive le situazioni e interpreta i fatti attraverso tutto il suo bagaglio conoscitivo ed esistenziale. Sembrerebbe ovvio che ciò che racconta è quello che ha visto, che ha sentito, che ha toccato… e non già quello che ha elaborato nella sua mente attraverso un insieme di vissuti e di credenze al contorno.
b) L’elemento suggestivo in un contesto di stress (la peste) dove il testimone è anche parte lesa e dove l’influenza collettiva (le voci che corrono) rappresenta la pressione sociale sull’individuo che perviene a conclusioni in forza di un condizionamento basato sulla paura e sul sospetto. Il teste è variamente influenzato indirettamente da quelle aspettative che riconosce nei suoi interlocutori, in un bisogno di trovare rinforzo e conferma nel contesto sociale e culturale.

Riguardo ad a, è da dire che ognuno di noi si forma sempre un’opinione su qualcosa, tendiamo ad interpretare i fatti e non a darne un semplice rendiconto. E’ la normalità del nostro dintorno sociale, la spinta naturale a produrre inferenze e conclusioni come processo di adattamento. La percezione di qualcosa è sempre pregna di interpretazioni e bisogna dire che non potrebbe essere altrimenti. Gli stessi organi di senso sono impregnati di ‘teoria’, non siamo recettori passivi, senza attendere le premesse saltiamo alle conclusioni. Semmai è proprio la neutralità un processo di decantazione per il quale si riduce il fatto ai suoi elementi essenziali svincolati da qualsivoglia tentativo di darne una colorazione. In questa veste i giudici dovrebbero fare una sorta di archeologia per ridurre i fatti raccontati dai testimoni nei loro elementi essenziali, spogliati da tutte quelle sovrapposizioni che la percezione aggiunge e che le consonanze cognitive del soggetto finiscono con introdurre surrettiziamente nella loro esposizione. Riguardo a b, occorre parlare non solo delle eventuali dissonanze cognitive per le quali il testimone finisce per integrare i fatti all’interno di una sua visione organica (un contesto conoscitivo ed affettivo dove entrano in gioco valori e credenze), ma anche di quelle suggestioni e pulsioni che nell’immediato lo condizionano e indirizzano emotivamente (pressioni sociali e culturali).

Torniamo al testo manzoniano ispirato alla ricerca della verità storica che è anche verità universale.

Noi abbiam cercato di metterla in luce (la verità), di far vedere che que' giudici condannaron degl'innocenti, che essi, con la più ferma persuasione dell'efficacia dell'unzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com'ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d'ingegno, e ricorrere a espedienti, de' quali non potevano ignorar l'ingiustizia. Non vogliamo certamente (e sarebbe un tristo assunto) togliere all'ignoranza e alla tortura la parte loro in quell'orribile fatto: ne furono, la prima un'occasion deplorabile, l'altra un mezzo crudele e attivo, quantunque non l'unico certamente, né il principale. Ma crediamo che importi il distinguerne le vere ed efficienti cagioni, che furono atti iniqui, prodotti da che, se non da passioni perverse? (Alessandro Manzoni, Storia della Colonna Infame -Introduzione-)

La posizione manzoniana è radicale: i giudici condannarono degli innocenti non a causa della errata credenza nelle unzioni e neppure nonostante che la legislazione dell’epoca ammettesse la tortura. Lo fecero in perfetta malafede, ricorrendo ad espedienti iniqui e ispirati da passioni perverse. Una posizione tanto radicale è anche scomoda, in quanto non ammette compromessi e in quanto mette in discussione una storiografia di stampo deterministico che sottrare la responsabilità individuale in forza di un contesto (oggi diremmo socio-economico) in cui l’individuo si trova immerso. Tale visione giustificazionista riguarda qualsiasi epoca, è in un certo senso la razionalità espressa nella forma della mentalità e del sistema di valori di un certo periodo storico.

Dio solo ha potuto distinguere qual più, qual meno tra queste abbia dominato nel cuor di que' giudici, e soggiogate le loro volontà: se la rabbia contro pericoli oscuri, che, impaziente di trovare un oggetto, afferrava quello che le veniva messo davanti; che aveva ricevuto una notizia desiderata, e non voleva trovarla falsa; aveva detto: finalmente! e non voleva dire: siam da capo; la rabbia resa spietata da una lunga paura, e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavan di sfuggirle di mano; o il timor di mancare a un'aspettativa generale, altrettanto sicura quanto avventata, di parer meno abili se scoprivano degl'innocenti, di voltar contro di sé le grida della moltitudine, col non ascoltarle; il timore fors'anche di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire: timore di men turpe apparenza, ma ugualmente perverso, e non men miserabile, quando sottentra al timore, veramente nobile e veramente sapiente, di commetter l'ingiustizia. (Alessandro Manzoni, Storia della Colonna Infame - Introduzione -)

Manzoni solleva la questione del tecnico del diritto, il magistrato, che in quanto giusperito dovrebbe risultare impermeabile alle aspettative generali che vorrebbero che venisse fatta giustizia al più presto, che un qualche colpevole venisse punito indipendentemente dalle sue responsabilità oggettive e in forza di quella suggestione che giudica soltanto su base emozionale e in forza di assunti a priori di colpevolezza. Insomma, un giudice che non si lasci prendere la mano dalle pressioni sociali, che non assecondi l’aspettativa generale, dando soddisfazione a una moltitudine che verrebbe delusa nello scoprire degli innocenti e che nel caso indirizzerebbe verso i giudici il livore e l’aggressività rivolti verso quelli che ha eletto come capri espiatori. L’altro elemento al quale si rivolge l’ironia manzoniana è l’impazienza di quei magistrati di trovare un qualsivoglia oggetto sul quale appuntare l’indagine e che, per quanto falso, costituiva l’unico a disposizione e per nulla al mondo se lo sarebbero lasciato sfuggire di mano.

Dio solo ha potuto vedere se que' magistrati, trovando i colpevoli d'un delitto che non c'era, ma che si voleva, furon più complici o ministri d'una moltitudine che, accecata, non dall'ignoranza, ma dalla malignità e dal furore, violava con quelle grida i precetti più positivi della legge divina, di cui si vantava seguace. Ma la menzogna, l'abuso del potere, la violazion delle leggi e delle regole più note e ricevute, l'adoprar doppio peso e doppia misura, son cose che si posson riconoscere anche dagli uomini negli atti umani; e riconosciute, non si posson riferire ad altro che a passioni pervertitrici della volontà; né, per ispiegar gli atti materialmente iniqui di quel giudizio, se ne potrebbe trovar di più naturali e di men triste, che quella rabbia e quel timore.  (Alessandro Manzoni, Storia della Colonna Infame - Introduzione -)

Il riferimento alla legge divina può sembrare qui un elemento estraneo a una argomentazione che si è mantenuta su un piano squisitamente logico e razionale. Ma dal contesto è evidente che il riferimento è all’etica di cui ogni ordinamento giuridico dovrebbe essere informato. L’immagine di una moltitudine accecata, più che dall’ignoranza, dalla malignità e dal furore rimanda un po’ a un pessimismo antropologico (vedi Machiavelli) e un po’ a una analisi di psicologia della massa e dei processi di influenza sociale sottesi. Ma in ogni caso si tratta di una disanima lucida quanto impietosa che pur nel contesto della pestilenza e della natura eccezionale di quegli anni, stigmatizza le menzogne e gli abusi di potere come mero risultato di arbitrio e perversione individuale di era chiamato a giudicare.

Ma quando, nel guardar più attentamente a que' fatti, ci si scopre un'ingiustizia che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano, un trasgredir le regole ammesse anche da loro, dell'azioni opposte ai lumi che non solo c'erano al loro tempo, ma che essi medesimi, in circostanze simili, mostraron d'avere, è un sollievo il pensare che, se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell'ignoranza che l'uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa; e che di tali fatti si può bensì esser forzatamente vittime, ma non autori. - mia la sottolineatura in grassetto - (Alessandro Manzoni, Storia della Colonna Infame - Introduzione -)

L’ironia manzoniana però non si limita a colpire lo spirito dei tempi e la malafede di quei giudici. In riferimento a certa storiografia giustificazionista o negazionista usa il sarcasmo rilevando come l’analisi storica si caratterizza spesso come un cumulo di luoghi comuni, un effetto fotocopia e palinsesto di assunti mai verificati ed esaminati nel dettaglio, in un gigantesco zibaldone in cui tutti ripetono pedissequamente senza mai controllare e verificare… (oggetto di ironia più o meno larvata sono storici del calibro di Giuseppe Ripamonti (1573- 1643), Battista Nani 1616-1678), Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), il giureconsulto Pietro Giannone ( 1676-1748) e in modo molto sfumato lo stesso Pietro Verri.

Dopo la breve storia del processo abbiam poi creduto che non sarebbe fuor di luogo una più breve storia dell'opinione che regnò intorno ad esso, fino al Verri, cioè per un secolo e mezzo circa. Dico l'opinione espressa ne' libri, che è, per lo più, e in gran parte, la sola che i posteri possan conoscere; e ha in ogni caso una sua importanza speciale. Nel nostro, c'è parso che potesse essere una cosa curiosa il vedere un seguito di scrittori andar l'uno dietro all'altro come le pecorelle di Dante, senza pensare a informarsi d'un fatto del quale credevano di dover parlare. Non dico: cosa divertente; ché, dopo aver visto quel crudele combattimento, e quell'orrenda vittoria dell'errore contro la verità, e del furore potente contro l'innocenza disarmata, non posson far altro che dispiacere, dicevo quasi rabbia, di chiunque siano, quelle parole in conferma e in esaltazione dell'errore, quell'affermar così sicuro, sul fondamento d'un credere così spensierato, quelle maledizioni alle vittime, quell'indegnazione alla rovescia. Ma un tal dispiacere porta con sé il suo vantaggio, accrescendo l'avversione e la diffidenza per quell'usanza antica, e non mai abbastanza screditata, di ripetere senza esaminare, e, se ci si lascia passar quest'espressione, di mescere al pubblico il suo vino medesimo, e alle volte quello che gli ha già dato alla testa. - mia la sottolineatura in grassetto - (Alessandro Manzoni, Storia della Colonna Infame - Introduzione -)

Ma torniamo nuovamente al capitolo I del testo manzoniano, all’antefatto al processo istituito sulle chiacchiere e le testimonianze di due donne, Caterina Rosa e Ottavia Bono, che non solo riescono a sollecitare la suggestione del quartiere ma perfino quella dei giudici.

C'era alla finestra d'una casa della strada medesima un'altra spettatrice, chiamata Ottavia Bono; la quale, non si saprebbe dire se concepisse lo stesso pazzo sospetto alla prima e da sé, o solamente quando l'altra ebbe messo il campo a rumore. Interrogata anch'essa, depone d'averlo veduto fin dal momento ch'entrò nella strada; ma non fa menzione di muri toccati nel camminare. Viddi, dice, che si fermò qui in fine della muraglia del giardino della casa delli Crivelli... et viddi che costui haueua una carta in mano, sopra la quale misse la mano dritta, che mi pareua che volesse scrivere; et poi viddi che, leuata la mano dalla carta, la fregò sopra la muraglia del detto giardino, dove era un poco di bianco. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap I -)

Si può istituire un processo sulla base del niente? Sì, se alle azioni e ai fatti aggiungiamo delle interpretazioni non sulla base di un contesto oggettivo, ma semplicemente su delle assunzioni, delle ipotesi, delle illazioni e dei teoremi. L’esame oggettivo avrebbe offerto un contesto interpretativo del tutto normale (per quanto la normalità sia essa stessa un elemento arbitrario): il Piazza si stava pulendo probabilmente le mani sporche di inchiostro e andava rasente al muro perché pioveva. Ma un teorema non si scoraggia certo per un fatto che dovrebbe screditarlo, è già pronta un’interpretazione ad hoc che faccia quadrare il cerchio e che anzi dia nuovo vigore al proprio assunto:

E in quanto all'andar rasente al muro, se a una cosa simile ci fosse bisogno d'un perché, era perché pioveva, come accennò quella Caterina medesima, ma per cavarne una induzione di questa sorte: è ben una gran cosa: hieri, mentre costui faceva questi atti di ongere, pioueua, et bisogna mo che hauesse pigliato quel tempo piovoso, perché più persone potessero imbrattarsi li panni nell'andar in volta, per andar al coperto. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap I -)

Il fatto di piovere diventa la dimostrazione della perversa volontà di contaminare il maggior numero di persone. E naturalmente se ci fosse stato il sole si sarebbe detto che il Piazza non avrebbe avuto motivo di andar rasente il muro. E’ questo il tipico procedimento verificazionista, un asserto che non contempla nessun falsificatore potenziale. In tutte le condizioni l’assunto che si tratta di un untore risulta sempre confermato attraverso qualche stratagemma convenzionalistico. Il procedimento è tipico di un sistema inquisitorio, ma anche di un sistema accusatorio ubiquo nel quale si tengono aperte più strade o meglio si chiude qualsiasi via di fuga in quanto viene introdotta in ogni caso una giustificazione di colpevolezza, sia che piova sia che ci sia il sole.

Subito puoi si diuulgò questo negotio, cioè fu essa, almeno principalmente, che lo divolgò, et uscirno dalle porte, et si vidde imbrattate le muraglie d'un certo ontume che pare grasso et che tira al giallo; et in particolare quelli del Tradate dissero che haueuano trovato tutto imbrattato li muri dell'andito della loro porta. L'altra donna depone il medesimo. Interrogata, se sa ache effetto questo tale fregasse di quella mano sopra il muro, risponde: dopo fu trouato onte le muraglie, particolarmente nella porta del Tradate. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap I -)

Quando la psicosi e la suggestione prende piede tra la gente si può perfino vedere quello che non c’è, è possibile interpretare la sporcizia e il sudiciume che era lì da sempre come qualcosa che d’improvviso fa la sua inquietante apparizione. Non si tratta solo di suggestione indotta dalle voci che corrono, si tratta proprio di por mente locale a qualcosa che solo il giorno prima passava completamente inosservato e che appare in tutta la sua evidenza: i muri e la porta sono lerci.

Queste considerazioni ci riportano a quanto i testimoni siano influenzabili nelle loro ricostruzioni per una sorta non solo di suggestione, ma di una attitudine a focalizzare quello che prima non veniva neppure notato. L’inversione figura-sfondo determina che il dettaglio viene notato e ingigantito fino ad apparire qualcosa di nuovo e rivelatore di una realtà oscura e nascosta. Quello che prima era solo qualcosa di trascurabile e inessenziale diviene sotto la lente di ingrandimento del sospetto una untuosità inquietante e terribile. Allo stesso modo un testimone in cui agisca una autosuggestione e pulsioni inconsce di natura aggressiva può interpretare retrospettivamente nel contesto di un delitto dei fatti banali e innocenti come rivelatori dell’azione criminosa di un imputato che di fatto potrebbe essere completamente innocente. Retrospettivamente, alla luce di un semplice sospetto qualunque cosa può acquistare dignità di indizio o addirittura assurgere a prova nel momento in cui la memoria sotto la spinta della suggestione riesce perfino a ricordare che lì su quei muri prima non c’erano mai state quelle ‘onte’ come nelle parole sarcastiche del Manzoni.

I vicini, a cui lo spavento fece scoprire chi sa quante sudicerie che avevan probabilmente davanti agli occhi, chi sa da quanto tempo, senza badarci, si misero in fretta e in furia a abbruciacchiarle con della paglia accesa. A Giangiacomo Mora, barbiere, che stava sulla cantonata, parve, come agli altri, che fossero stati unti i muri della sua casa. E non sapeva, l'infelice, qual altro pericolo gli sovrastava, e da quel commissario medesimo, ben infelice anche lui -2-. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap I -)

-2- Il Piazza dopo due torture stoicamente sopportate , allettato dalla promessa di impunità accuserà l’innocente barbiere Giangiacomo Mora

Uno dei caratteri della suggestione collettiva è che si nutre come il fuoco di nuovo combustibile e non ci si riferisce alla paglia accesa per bruciare le ‘onte’, ci si riferisce a quell’incendio che le voci che corrono determinano in un proliferare di altre voci e di ricordi che improvvisamente tornano alla memoria rivelando qualche terribile verità nascosta:

La notizia si sparse via via negli altri quartieri, e ci fu anche portata da qualcheduno che s'era abbattuto a passar di lì nel momento del sottosopra. Uno di questi discorsi fu riferito al senato, che ordinò al capitano di giustizia, d'andar subito a prendere informazioni, e di procedere secondo il caso. È stato significato al Senato che hieri mattina furno onte con ontioni mortifere le mura et porte delle case della Vedra de' Cittadini, disse il capitano di giustizia al notaio criminale che prese con sé in quella spedizione. E con queste parole, già piene d'una deplorabile certezza, e passate senza correzione dalla bocca del popolo in quella de' magistrati, s'apre il processo -3-. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap I -)

-3-  I magistrati, imboccati dalla diceria popolare e paurosi di lasciarla insoddisfatta, sono persuasi che mura e porte sono state imbrattate prima ancora di conoscere il corpo del reato.

L’andamento che sembra alludere a un mero fenomeno di psicologia delle masse non deve ingannare. Il magistrato che dovrebbe discernere tra i fatti acclarati e la suggestione popolare si lascia imbeccare dalla diceria popolare. Gli indizi più vaghi diventano certezze senza neppure conoscere il corpo del reato. Manzoni apre una breve parentesi per ricordare altri episodi avvenuti in varie parti d’Europa al tempo del colera:

Se non che, questa volta, le persone punto punto istruite, meno qualche eccezione, non parteciparono della sciagurata credenza, anzi la più parte fecero quel che potevano per combatterla; e non si sarebbe trovato nessun tribunale che stendesse la mano sopra imputati di quella sorte, quando non fosse stato per sottrarli al furore della moltitudine. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap I -)

Ma anche in questo caso il Manzoni diffida di considerazioni storiografiche basate sulla cultura o sulla mentalità riportando l’interpretazione non già all’elemento sociologico ma alla responsabilità individuale, spostando l’attenzione dalla psicologia delle masse (e dagli automatismi psico-sociali) alla coscienza individuale.

Per citarne un esempio anch'esso non lontano, anteriore di poco al colera; quando gl'incendi eran divenuti così frequenti nella Normandia, cosa ci voleva perché un uomo ne fosse subito subito creduto autore da una moltitudine? L'essere il primo che trovavan lì, o nelle vicinanze; l'essere sconosciuto, e non dar di sé un conto soddisfacente: cosa doppiamente difficile quando chi risponde è spaventato, e furiosi quelli che interrogano; l'essere indicato da una donna che poteva essere una Caterina Rosa, da un ragazzo che, preso in sospetto esso medesimo per uno strumento della malvagità altrui, e messo alle strette di dire chi l'avesse mandato a dar fuoco, diceva un nome a caso. Felici que' giurati davanti a cui tali imputati comparvero (ché più d'una volta la moltitudine eseguì da sé la sua propria sentenza); felici que' giurati, se entrarono nella loro sala ben persuasi che non sapevano ancor nulla, se non rimase loro nella mente alcun rimbombo di quel rumore di fuori, se pensarono, non che essi erano il paese, come si dice spesso con un traslato di quelli che fanno perder di vista il carattere proprio e essenziale della cosa, con un traslato sinistro e crudele nei casi in cui il paese si sia già formato un giudizio senza averne i mezzi (sottolineatura in grassetto mia); ma ch'eran uomini esclusivamente investiti della sacra, necessaria, terribile autorità di decidere se altri uomini siano colpevoli o innocenti. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap I -)

Si tratta di un passo denso di significato e di altissimo valore giuridico che in sostanza significa l’indipendenza dell’organo giudicante da qualsiasi pressione sociale (e oggi diremmo anche politica) un’indipendenza dei magistrati e delle giurie popolari da qualsivoglia giudizio precostituito attraverso suggestioni, interessi, compromessi e quant’altro. Nella realtà attuale, nella catena informativa e nell’immersione di ognuno di noi in un ambiente pregno di un flusso ininterrotto di notizie, sembra palesemente sempre più difficile evitare condizionamenti. Eppure anche qui Manzoni rimanda a una responsabilità individuale: un conto è il rumore nel quale siamo avvolti e che spesso ci inclina a giudizi avventati e senza averne i mezzi (sollecitati vuoi da una sorta di superficialità qualunquistica e vuoi dalla pressione al conformismo sociale), e un conto è quando indossiamo la veste ufficiale dei giurati, quando ci viene richiesto di sgombrare la mente dal frastuono, dalle suggestioni, dai pregiudizi (gli idola fori e gli idola theatri) con la convinzione di non saper nulla e dunque di giudicare sugli elementi obiettivi e non già su quel rimbombo là fuori, consapevoli dell’onere sacro e terribile di giudicare altri uomini.

Era già stato dato l'ordine d'arrestare il Piazza, e ci volle poco. Lo stesso giorno 22, referisce... fante della compagnia del Baricello di Campagna al prefato Signor Capitano, il quale ancora era in carrozza, che andaua verso casa sua, sicome passando dalla casa del Signor Senatore Monti Presidente della Sanità, ha ritrouato auanti a quella porta, il suddetto Guglielmo Commissario, et hauerlo, in esecuzione dell'ordine datogli, condotto in prigione. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap I -)

Dunque sulla semplice base della testimonianza confusa di due donne, una semplice suggestione ricavata dalla fantasia, Guglielmo Piazza commissario di sanità viene condotto in carcere. L’uomo non cerca di fuggire, non oppone resistenza. Viene frugata la sua casa “in omnibus arcis, capsis, scriniis, cancellis, sublectis” e non vien trovato nulla: “nihil penitus compertum fuit”. Piazza viene interrogato.

È interrogato sulla sua professione, sulle sue operazioni abituali, sul giro che fece il giorno prima, sul vestito che aveva; finalmente gli si domanda: se sa che siano stati trouati alcuni imbrattamenti nelle muraglie delle case di questa città, particolarmente in Porta Ticinese. Risponde: mi non lo so, perché non mi fermo niente in Porta Ticinese. Gli si replica che questo non è verisimile; si vuol dimostrargli che lo doveva sapere. A quattro ripetute domande, risponde quattro volte il medesimo, in altri termini. Si passa ad altro, ma non con altro fine: ché vedrem poi per qual crudele malizia s'insistesse su questa pretesa inverisimiglianza, e s'andasse a caccia di qualche altra. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap I -)

Il concetto di verosimiglianza è una dei più usati nelle formulazioni del diritto ed è un passe-partout universale, una forma pseudologica dove all’occorrenza si può dire tutto e il suo contrario. Verosimile o simile al vero è probabilmente di derivazione sofistica e intrattiene rapporti molto stretti con quel principio di induzione che è alla base di molti paralogismi. La base del principio di verosimiglianza è una sorta di luogo comune o di valore implicito, o ancora di un supposto buon senso che fa riferimento al comune senso del pudore o alla concezione media di un sentire della quale chi giudica si fa interprete. Sul piano logico (ad eccezione di una logica fuzzy con valori intermedi tra 0 e 1) una cosa o è vera o è falsa, il verosimile (o simile al vero) è semplicemente un escamotage con il quale un asserto non viene messo in discussione in quanto indecidibile, ma viene bollato con una sorta di marchio di garanzia (verosimile) o con un marchio di infamia (inverosimile). L’inverosimiglianza è un termine carico di ambiguità, un valore indefinito che senza esporsi alla falsificazione può invalidare l’asserto di un testimone o di un imputato mediante una formula che suscita il sospetto e adombra la menzogna senza però l’onere di dimostrarlo.

Nella sofistica greca troviamo per l’appunto un magazzino di espedienti tesi a far valere una tesi, vera o falsa che sia, utilizzando strumenti dialettici e retorici. Sia attraverso le fallacie (errori di consequenzialità logica) sia suscitando emozioni (la retorica). L’uso linguistico del concetto di verosimiglianza rimanda semplicemente a quell’universo di comportamenti o di azioni che colui che parla mostra di ritenere nella norma, credibile e pertinente. Nella realtà il più delle volte ci troviamo di fronte a fatti che riteniamo inverosimili e che però accadono. Quando il Piazza viene chiesto se sa degli imbrattamenti sui muri, la sua risposta di non saperlo (mi non lo so, perché non mi fermo niente in Porta Ticinese) è per l’appunto considerata non verisimile. Come si può vedere il concetto di verosimile è davvero un passe-partout che può aprire o chiudere qualsiasi porta, dimostrare che un testimone (o un imputato) sta mentendo. La domanda reiterata ha la funzione di sottolineare quella presunta inverosimiglianza che costituisce la premessa per dimostrare che colui al quale viene rivolta la domanda continua a mentire, persevera nelle bugie. Nel concetto di verosimiglianza è contenuto in nuce quello di induzione. Da alcuni casi particolari si passa a una generalizzazione fondandola semplicemente su una sorta di probabilità statistica o di rilievo empirico nella formula. Come dire: 

a’ ‘b’ e ‘c’ sono ‘n- Alfio, Bruno e Carlo sono zingari
a’ ‘b’ e ‘c’ sono ‘k’ - Alfio, Bruno e Carlo sono ladri
Tutti gli ‘n’ sono ‘k’- Tutti gli zingari sono ladri

Ovviamente il sillogismo induttivo non ha alcun fondamento e prelude semplicemente a un pregiudizio.

Ma ancora più interessante è la formula del principio per enumerazione che di fatto sottintende proprio un concetto di verosimiglianza fondandolo su una casistica che escluderebbe proprio quello ritenuto un caso inverosimile in quanto non contemplato in un insieme di casi ritenuti possibili. Si fonda sul metodo dell’eliminazione o confutazione dei casi ritenuti falsi. Ma in realtà il numero dei casi possibili è potenzialmente infinito. Dato un problema p esiste sempre un’infinità di soluzioni possibili. Ad esempio del perché una persona cammini rasente a un muro si può trovare un’infinità di spiegazioni logicamente possibili.

L’induttivismo si appoggia sui dati probatori empirici, ma per quanto possano essere numerose le asserzioni singolari le teorie universali non sono mai deducibili da esse.

Tra i fatti della giornata antecedente, de' quali aveva parlato il Piazza, c'era d'essersi trovato coi deputati d'una parrocchia. (Eran gentiluomini eletti in ciascheduna di queste dal tribunale della Sanità, per invigilare, girando per la città, sull'esecuzion de' suoi ordini.) Gli fu domandato chi eran quelli con cui s'era trovato; rispose: che li conosceva solamente di vista e non di nome. E anche qui gli fu detto: non è verisimile. Terribile parola: per intender l'importanza della quale, son necessarie alcune osservazioni generali, che pur troppo non potranno esser brevissime, sulla pratica di que' tempi, ne' giudizi criminali. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap I -)

Il termine verosiglianza è anche sinonimo di probabilità (likelihood). L’esempio classico è: “se lancio una moneta e esce cento volte testa, qual è la verosimiglianza che quella moneta sia truccata?”. Direi nessuna, altrimenti la distribuzione statistica seguirebbe delle mere regolarità. La prova che quella moneta sia truccata (non una moneta ipotetica ed astratta) è data soltanto da una analisi non statistica ma reale sulla moneta in oggetto. In altri termini una cosa è la statistica e una cosa sono i fatti reali. Se dovessimo basare i processi sulla statistica potremmo tranquillamente fare a meno delle prove, basterebbe fidarsi del calcolo delle probabilità con un margine di errore statisticamente nella norma... salvo per chi ci è andato di mezzo. Condanne e assoluzioni sarebbero davvero determinate dal lancio di una moneta.

Se ho sempre osservato cigni bianchi troverò implausibile incontrare un cigno nero e in base a un calcolo statistico dovrò ritenere che chi dice di averne visto uno mente di certo, perché quello che asserisce è inverosimile. Un conto insomma è stabilire qual è la probabilità che Piero abbia mangiato il pollo a pranzo quest’oggi (astrattamente su base statistica), e un conto è stabilire se l’abbia effettivamente mangiato (concretamente). Nella pratica del diritto non sempre sembra che la distinzione sia chiara e univoca, argomentando di plausibilità, credibilità, attendibilità, possibilità, probabilità... come se in gioco ci fosse un mero calcolo stocastico.

Nella realtà il concetto di verosimiglianza ha molto a che fare con l’opinione pubblica, è una maschera retorica sottomessa a un referente conforme alle regole stabilite spesso sotto forma di censura, comunque conformi a un contesto culturale e/o ideologico. Tale ‘procedimento logico’ non ha bisogno di dimostrazioni e neppure di prove. Dire che qualcosa è inverosimile significa appellarsi al senso comune, qual senso comune che esclude dal suo campo di possibilità tutto quello che non conosce e non comprende. In base al concetto di verosimiglianza la maggior parte delle teorie lontane dal senso comune verrebbero bollate come inverosimili (in odore di falsità) comprese la teoria della relatività e la meccanica quantistica.

Ma torniamo al testo manzoniano. Nel secondo capitolo l’autore si avventura in un’analisi dei giudizi criminali di quel tempo in contrasto col Verri delle Osservazioni sulla tortura. Dimostra che proprio gli scrittori criminalisti del tempo avevano già bollato la tortura come pratica arbitraria. Insomma, il Manzoni ancora una volta vuol dimostrare che non è stato l’ambiente storico a determinare l’errore di giudizio, ma che l’errore di giudizio è scaturito da una volontà individuale e da un arbitrio che non trova giustificazione, se non in coloro che hanno giudicato e condannato. Si tratta di una attribuzione di responsabilità per la quale nessuno si può sottrarre in nome di un determinismo storico e sociologico.

In questo errore, diremmo quasi invidiabile, quando è compagno di grandi e benefiche imprese, ci par che sia caduto, con altri uomini insigni del suo tempo, l'autore dell'Osservazioni sulla tortura. Quanto è forte e fondato nel dimostrar l'assurdità, l'ingiustizia e la crudeltà di quell'abbominevole pratica, altrettanto ci pare che vada, osiam dire, in fretta nell'attribuire all'autorità degli scrittori ciò ch'essa aveva di più odioso. E non è certamente la dimenticanza della nostra inferiorità che ci dia il coraggio di contradir liberamente, come siamo per fare, l'opinion d'un uomo così illustre, e sostenuta in un libro così generoso; ma la confidenza nel vantaggio d'esser venuti dopo, e di poter facilmente (prendendo per punto principale ciò che per lui era affatto accessorio) guardar con occhio più tranquillo, nel complesso de' suoi effetti, e nella differenza de' tempi, come cosa morta, e passata nella storia, un fatto ch'egli aveva a combattere, come ancor dominante, come un ostacolo attuale a nuove e desiderabilissime riforme. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap II -)

Manzoni non è incline ad assolvere coloro che hanno abusato del loro potere. Quantunque la motivazione rimandi a una prospettiva morale e religiosa, è evidente che l’accusa riguarda la violazione del diritto, non a caso cita il Verri che nella sua opera, Osservazioni sulla tortura, a sua volta cita Prospero Farinacci (1544-1618) celebre penalista e giureconsulto:

Farinaccio istesso "parlando de' suoi tempi, asserisce che i giudici, per il diletto che provavano nel tormentare i rei, inventavano nuove specie di tormenti; eccone le parole: Judices qui propter delectationem, quam habent torquendi reos, inveniunt novas tormentorum species". (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap II -)

Manzoni cita una serie di autori criminalisti come Paride dal Pozzo, Francesco dal Bruno, Angelo d’Arezzo e Guido da Suzara... per dimostrare che già nel contesto dell’epoca e prima ancora esisteva la piena consapevolezza del carattere abominevole della pratica della tortura, del suo carattere nefasto e criminale, denuncia di un abuso che nulla aveva a che fare con la ricerca della verità, ma che invece costituiva una ben precisa scelta individuale (senza nessuna motivazione di ordine storico) di chi decideva di farne uso.

Più tardi, Paride dal Pozzo inveisce contro que' giudici che, "assetati di sangue, anelano a scannare, non per fine di riparazione né d'esempio, ma come per un loro vanto (propter gloriam eorum); e sono per ciò da riguardarsi come omicidi".
"Badi il giudice di non adoprar tormenti ricercati e inusitati; perché chi fa tali cose è degno d'esser chiamato carnefice piuttosto che giudice," scrive Giulio Claro.
"Bisogna alzar la voce (clamandum est) contro que' giudici severi e crudeli che, per acquistare una gloria vana, e per salire, con questo mezzo, a più alti posti, impongono ai miseri rei nuove specie di tormenti", scrive Antonio Gomez. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap II)

La contabilità dei supplizi in cui la tortura veniva definita attraverso regole e codici può apparire come qualcosa di orribile, ma di fatto erano proprio quelle un freno a por argine ai tormenti e alla crudeltà. Fissare una sorta di ragioneria della tortura da parte degli autori criminalisti aveva proprio lo scopo di controllarne gli abusi.

E per venir finalmente all'applicazione, era insegnamento comune, e quasi universale de' dottori, che la bugia dell'accusato nel rispondere al giudice, fosse uno degl'indizi legittimi, come dicevano, alla tortura. Ecco perché l'esaminatore dell'infelice Piazza gli oppose, non essere verisimile che lui non avesse sentito parlare di muri imbrattati in porta Ticinese, e che non sapesse il nome de' deputati coi quali aveva avuto che fare. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap III -)

Manzoni osserva che la bugia, anche nell’ottica della prassi giudiziaria dell’epoca, non mette in causa la tortura “se riguarda cose che non aggraverebbero il reo, quando le avesse confessate”, inoltre quella che viene definita bugia riguarda o l’equivoco concetto di verosimiglianza o la mera opinione del giudice. Il fissare l’attenzione su cose di nessuna importanza (che differenza faceva se il Piazza avesse detto di sapere dei muri imbrattati?), su presunte bugie, ha un duplice scopo: da un lato di esasperare il testimone-imputato con contestazioni marginali e inessenziali, dall’altro di incrinare la sua credibilità. Qualunque testimone in odore di imputazione può essere tenuto in quel limbo di incertezza dove non si sa ancora quale sia la sua posizione (testimone o imputato?), ma dove già una procedura di delegittimazione sta operando surrettizziamente senza che questi possa difendersi da qualche accusa che gli sia stata rivolta.

Ma che la bugia dovesse risultar da prove legali, e non da semplice congettura del giudice, era dottrina comune e non contradetta. Tali condizioni eran dedotte da quel canone della legge romana, il quale proibiva (che cose s'è ridotti a proibire, quando se ne sono ammesse cert'altre!) di cominciar dalla tortura. "E se concedessimo ai giudici", dice l'autor medesimo, "la facoltà di mettere alla tortura i rei senza indizi legittimi e sufficienti, sarebbe come in lor potere il cominciar da essa... E per poter chiamarsi tali, devon gl'indizi esser verisimili, probabili, non leggieri, né di semplice formalità, ma gravi, urgenti, certi, chiari, anzi più chiari del sole di mezzogiorno, come si suol dire... (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap III -)

Le prove di cui si parla sono spesso soltanto congetture, ipotesi, indizi. E la stessa legge romana, come osserva il Manzoni, proibiva che si cominciasse dalla tortura. Sul fatto poi che gli indizi siano probabili e non leggeri rientra ancora una volta in quel criterio di discrezionalità. La chiarezza del sole a mezzogiorno (per esprimerci con le parole del Manzoni) dipende dal grado di preparazione del giudice, dalla sua imparzialità e in ultima analisi dalla sua onestà intellettuale.

Senza entrare in nulla che toccasse circostanze, né sostanziali né accidentali, del presunto delitto, moltiplicarono interrogazioni inconcludenti, per farne uscir de' pretesti di dire alla vittima destinata: non è verisimile; e, dando insieme a inverisimiglianze asserite la forza di bugie legalmente provate, intimar la tortura. È che non cercavano una verità, ma volevano una confessione: non sapendo quanto vantaggio avrebbero avuto nell'esame del fatto supposto, volevano venir presto al dolore, che dava loro un vantaggio pronto e sicuro: avevan furia. Tutto Milano sapeva (è il vocabolo usato in casi simili) che Guglielmo Piazza aveva unti i muri, gli usci, gli anditi di via della Vetra; e loro che l'avevan nelle mani, non l'avrebbero fatto confessar subito a lui! (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap III -)

La tecnica non sembra proprio in disuso. Chiunque può avere qualche motivo per mentire su cose insignificanti e senza nessun interesse, e ammesso che si tratti davvero di bugie e non soltanto di errori della memoria. Si può mentire per pudore, per paura, per pigrizia, o semplicemente si può non dire il vero perché il fatto è senza interesse, senza rilievo e non ci si rende neppure conto di dire qualcosa di sbagliato. Si può dire il falso senza che questo cagioni danno ad alcuno. Il rapporto tra vero e falso è regolato da una molteplicità di cagioni che spesso non hanno alcuna attinenza con lo scopo di una indagine. Ci sono bugie innocenti e bugie sostanziose. Si può non dire il vero senza mentire e si può non dire il falso mentendo. Nel caso specifico era risaputo da tutta Milano che Guglielmo Piazza aveva unti i muri, gli usci, gli anditi di via della Vetra; e loro che l'avevan nelle mani, non l'avrebbero fatto confessar subito a lui! In altri termini la verità era considerata quella dell’opinione generale in forza della suggestione innescata dalla fantasia - quella sì inverosimile – delle due donne Caterina Rosa e Ottavia Bono.

Intimò dunque l'iniquo esaminatore al Piazza: che dica la verità per qual causa nega di sapere che siano state onte le muraglie, et di sapere come si chiamino li deputati, che altrimente, come cose inuerisimili, si metterà alla corda, per hauer la verità di queste inuerisimilitudini. - Se me la vogliono anche far attaccar al collo, lo faccino; che di queste cose che mi hanno interrogato non ne so niente, rispose l'infelice, con quella specie di coraggio disperato, con cui la ragione sfida alle volte la forza, come per farle sentire che, a qualunque segno arrivi, non arriverà mai a diventar ragione. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap III -)

La tortura come espediente per cavare la verità è prima ancora che una procedura una minaccia. La minaccia è qualcosa che fa capo alle fantasie del reo o del presunto reo. Ciascuno di noi ha un’immagine diversa di ciò che suscita orrore e paura, di ciò che ci terrorizza fino alla disperazione. In 1984 di Orwell ad esempio è la misteriosa stanza 101 dove il protagonista Winston Smith può liberamente immaginare quali orrende torture e supplizi si nascondano dietro a quella porta. In certo senso la semplice minaccia, la mera allusione, ha un potenziale distruttivo e di terrore molto più ampio, è un deterrente più profondo e totalizzante in quanto lascia supporre alla fantasia del malcapitato tutto quello che soggettivamente nella sua storia personale, nei suoi vissuti biografici, ha fatto parte delle sue ancestrali paure. Molte procedure sono di fatto metodi di tortura semplicemente quando adombrino qualcosa di misterioso, quando lascino semplicemente intendere una punizione, anche semplicemente alludendo a qualcosa di equivoco e indiscernibile. Il Piazza che avrebbe potuto rispondere per compiacere i suoi aguzzini:

Sì, signore… avevo sentito dire che s'eran trovati unti i muri di via della Vetra; e stavo a baloccarmi sulla porta di casa vostra, signor presidente della Sanità! – E l'argomento sarebbe stato tanto più forte, in quanto, essendosi sparsa insieme la voce del fatto, e la voce che il Piazza ne fosse l'autore, questo avrebbe, insieme con la notizia, dovuto risapere il suo pericolo. Ma questa osservazion così ovvia, e che il furore non lasciava venire in mente a coloro, non poteva nemmeno venire in mente all'infelice, perché non gli era stato detto di cosa fosse imputato. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap III -)

Incarcerare qualcuno senza neppure dirgli di cosa è imputato... piegarne la volontà con lo scopo di renderlo arrendevole, confonderlo e umiliarlo. Una domanda è d’obbligo: Fino a che punto si può resistere in una condizione di sudditanza e si dolore? Nell’agiografia dei santi si fa spesso riferimento alla inusitata capacità di sopportare il dolore da parte di uomini in cui la fede riesce a superare perfino i liniti dell’umana natura. Ma si tratta di supplizi sopportati in nome di una testimonianza di fede, non già di supplizi decretati per le fantasie di due donnette.

Volevan prima domarlo co' tormenti; questi eran per loro gli argomenti verosimili e probabili, richiesti dalla legge; volevan fargli sentire quale terribile, immediata conseguenza veniva dal risponder loro di no; volevano che si confessasse bugiardo una volta, per acquistare il diritto di non credergli, quando avrebbe detto: sono innocente. Ma non ottennero l'iniquo intento. Il Piazza, rimesso alla tortura, alzato da terra, intimatogli che verrebbe alzato di più, eseguita la minaccia, e sempre incalzato a dir la verità, rispose sempre: l'ho detta; prima urlando, poi a voce bassa; finché i giudici, vedendo che ormai non avrebbe più potuto rispondere in nessuna maniera, lo fecero lasciar giù, e ricondurre in carcere. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap III -)

In realtà la tortura può intendersi non solo con l’uso di strumenti appropriati per produrre un dolore insopportabile. Tortura è anche un insieme di procedimenti atti a portare qualcuno in uno stato di profonda prostrazione e sconforto. All’uopo può bastare la deprivazione del sonno, il freddo, l’isolamento e la deprivazione sensoriale e ogni sorta di umiliazione che forse più ancora del dolore fisico predispone una persona a lasciarsi andare, a confessare anche quello che non ha mai commesso.

Riferito l'esame in senato, il giorno 23, dal presidente della Sanità, che n'era membro, e dal capitano di giustizia, che ci sedeva quando fosse chiamato, quel tribunale supremo decretò che: "il Piazza, dopo essere stato raso, rivestito con gli abiti della curia, e purgato, fosse sottoposto alla tortura grave, con la legatura del canapo", atrocissima aggiunta, per la quale, oltre le braccia, si slogavano anche le mani; "a riprese, e ad arbitrio de' due magistrati suddetti; e ciò sopra alcune delle menzogne e inverisimiglianze risultanti dal processo". (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap III -)

Rasato, rivestito e purgato. Tre atti simbolici che comportano non solo una umiliazione, ma anche il primo tentativo di spersonalizzazione. L’imputato diventa un oggetto da manipolare, viene reificato con una prima operazione sul suo corpo. Il taglio dei capelli simboleggia la prima spogliazione della forza (che è soprattutto quella interiore) la sostituzione dei vestiti costituisce l’annullamento della propria immagine, della propria identità. La purga il primo intervento interno sul corpo attraverso il controllo delle funzioni intestinali, dei movimenti peristaltici che anticipano quegli spasmi muscolari al quale l’imputato verrà sottoposto. La tortura vera e propria è dunque preceduta da un cerimoniale che ha un duplice scopo: a) elevarla a una sorta di sacralità del diritto dandole formale dignità e legittimità. b) vestirla di un’aura di giustizia come una sorta di purificazione del reo. L’arbitraria modalità della tortura ha poi l’evidenza che l’imputato non è più latore di alcun diritto e possessore di alcun a garanzia di salvaguardia.

Quel secondo esame non fu che una ugualmente assurda e più atroce ripetizione del primo, e con lo stesso effetto. L'infelice Piazza, interrogato prima, e contradetto con cavilli, che si direbbero puerili, se a nulla d'un tal fatto potesse convenire un tal vocabolo, e sempre su circostanze indifferenti al supposto delitto, e senza mai accennarlo nemmeno, fu messo a quella più crudele tortura che il senato aveva prescritta. N'ebbero parole di dolor disperato, parole di dolor supplichevole, nessuna di quelle che desideravano, e per ottener le quali avevano il coraggio di sentire, di far dire quell'altre. Ah Dio mio! ah che assassinamento è questo! ah Signor fiscale!... Fatemi almeno appiccar presto... Fatemi tagliar via la mano... Ammazzatemi; lasciatemi almeno riposar un poco. Ah! Signor Presidente! ... Per amor di Dio, fatemi dar da bere; ma insieme: non so niente, la verità l'ho detta. Dopo molte e molte risposte tali, a quella freddamente e freneticamente ripetuta istanza di dir la verità, gli mancò la voce, ammutolì; per quattro volte non rispose; finalmente poté dire ancora una volta, con voce fioca; non so niente; la verità l'ho già detta. Si dovette finire, e ricondurlo di nuovo, non confesso, in carcere. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap III -)

Non potendo piegare il Piazza con le torture lo blandirono con la falsa promessa di impunità se avesse fatto il nome dei complici.

Ma chi può immaginarsi i combattimenti di quell'animo, a cui la memoria così recente de' tormenti avrà fatto sentire a vicenda il terror di soffrirli di nuovo, e l'orrore di farli soffrire! A cui la speranza di fuggire una morte spaventosa, non si presentava che accompagnata con lo spavento di cagionarla a un altro innocente! (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap III -)

Il pentitismo come termine corrente ma come luogo ricorrente nella pratica inquisitoria ha due risvolti. L’uno rimanda all’opportunismo di coinvolgere qualcun altro per alleviare la propria posizione (indipendentemente dal fatto che il coinvolgimento possa essere reale o inventato), l’altro possiamo dire sia l’onesta e fattuale testimonianza che coinvolge anche altri ma senza conseguirne vantaggi se non quello di liberarsi la coscienza. Il pentimento riferito al reo è un termine assolutamente fuori luogo che rimanda a un fatto interiore di cui né giudice e neppure il confessore possono avere contezza. Il termine è fuorviante eppure abusato. Nel caso specifico è la promessa di impunità (per giunta falsa) a fare da detonatore e a corrompere la coscienza di un innocente.

Il barbiere Giangiacomo Mora componeva e spacciava un unguento contro la peste; uno de' mille specifici che avevano e dovevano aver credito, mentre faceva tanta strage un male di cui non si conosce il rimedio, e in un secolo in cui la medicina aveva ancor così poco imparato a non affermare, e insegnato a non credere. Pochi giorni prima d'essere arrestato, il Piazza aveva chiesto di quell'unguento al barbiere; questo aveva promesso di preparargliene […] la mattina stessa del giorno che seguì l'arresto, gli aveva detto che il vasetto era pronto, e venisse a prenderlo. Volevan dal Piazza una storia d'unguento, di concerti, di via della Vetra: quelle circostanze così recenti gli serviron di materia per comporne una: se si può chiamar comporre l'attaccare a molte circostanze reali un'invenzione incompatibile con esse. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame -cap III)

Da un fatto vero si può costruirne un altro inventato. La commistione di vero e falso è forse uno degli elementi più incerti del diritto. Mescolare le carte in modo che da alcuni fatti veri se ne possano trarre altri falsi costituisce l’espediente infallibile per rendere attendibile una ricostruzione zoppicante.

L'auditore corse, con la sbirraglia, alla casa del Mora, e lo trovarono in bottega. Ecco un altro reo che non pensava a fuggire, né a nascondersi, benché il suo complice fosse in prigione da quattro giorni. C'era con lui un suo figliuolo; e l'auditore ordinò che fossero arrestati tutt'e due. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap IV -)

Uno dei caratteri di un sistema inquisitorio è che si assiste in genere al moltiplicarsi (un po’ come nel miracolo dei pani e dei pesci) delle persone coinvolte nel tentativo di sottrarsi a una sorte terribile, dibattendosi in ogni modo per trovare una via di scampo al dolore e alla morte. Il Mora per un po’ resiste al dolore, alle accuse senza fondamento.

Il Mora fu messo alla tortura!
L'infelice non aveva la robustezza del suo calunniatore. Per qualche tempo però, il dolore non gli tirò fuori altro che grida compassionevoli, e proteste d'aver detta la verità. Oh Dio mio; non ho cognitione di colui, né ho mai hauuto pratica con lui, et per questo non posso dire... et per questo dice la bugia che sia praticato in casa mia, né che sia mai stato nella mia bottega. Son morto! misericordia, mio Signore! misericordia! […] Finalmente, potendo più lo spasimo che il ribrezzo di calunniar sé stesso, che il pensiero del supplizio, disse: ho dato un vasetto pieno di brutto, cioè sterco, acciò imbrattasse le muraglie, al Commissario. V.S. mi lasci giù, che dirò la verità.
(Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap IV -)

E’ da dire che Piazza e Mora non furono piegati tanto con la tortura quanto con la menzogna. In tutta la ricostruzione del Manzoni (che qui è data per sommi capi) c’è un continuo rimando ad una assoluta mancanza dei capi di imputazione, di prove, di elementi probatori. Le ricostruzioni degli inquirenti non sono solo approssimative, diremmo inverosimili, ma prive di qualsiaasi logica a supporto, e al di là del fatto che quella degli untori fosse soltanto una diceria scaturita dalla superstizione e dalla fantasia popolare. Le storie dei due protagonisti, uno zibaldone di invenzioni per sottrarsi all’infamia e al dolore, sono, nella accurata ricostruzione del Manzoni, un coacervo di invenzioni al limite del grottesco, una progressiva apposizione di fatti di invenzione per accontentare i giudici che si accanivano con la tortura. Ometto gli altri sviluppi del processo con il coinvolgimento del Padilla figliolo del comandante del castello e capitano di cavalleria (un pesce grosso) che Manzoni giustifica con la solita sferzante ironia:

Quella nuova invenzione del Piazza sospese però il supplizio per alcuni giorni, pieni di bugiarde speranze, ma insieme di nuove crudeli torture, e di nuove funeste calunnie. […] Pensò probabilmente che, se gli riusciva di tirare in quella rete, così chiusa alla fuga, così larga all'entrata, un pesce grosso; questo per uscirne, ci farebbe un tal rotto, che ne potrebbero scappar fuori anche i piccoli. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap V -)

Ai due poveri sciagurati viene assegnato un difensore d’ufficio.

Quello assegnato al Mora se ne scusò. Il Verri attribuisce, per congettura, quel rifiuto a una cagione che pur troppo non è strana in quel complesso di cose. "Il furore", dice, "era giunto al segno, che si credeva un'azione cattiva e disonorante il difender questa disgraziata vittima. […] Lo stesso giorno, due di luglio, il notaio Mauri, chiamato a difendere il detto Mora, disse: io non posso accettare questo carico, perché, prima sono Notaro criminale, a chi non conviene accettar patrocinij, et poi anche perché non sono né Procuratore, né Avocato; anderò bene a parlarli, per darli gusto (per fargli piacere), ma non accettarò il patrocinio. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap V -)

La sentenza già scritta comporta una morte atroce, qualcosa che riporta non solo alla tortura ma al supplizio come teatro sociale, alla gogna e al palcoscenico in cui la massa trova finalmente il capro espiatorio sul quale dirigere frustrazioni e paure, e godere come spettatore:

Quell'infernale sentenza portava che, messi sur un carro, fossero condotti al luogo del supplizio; tanagliati con ferro rovente, per la strada; tagliata loro la mano destra, davanti alla bottega del Mora; spezzate l'ossa con la rota, e in quella intrecciati vivi, e alzati da terra; dopo sei ore, scannati; bruciati i cadaveri, e le ceneri buttate nel fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio di quella, eretta una colonna che si chiamasse infame; proibito in perpetuo di rifabbricare in quel luogo. […] Così, con la loro impunità, e con la loro tortura, riuscivan que' giudici, non solo a fare atrocemente morir degl'innocenti, ma, per quanto dipendeva da loro, a farli morir colpevoli. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap V -)

Il tempo cancella anche l’infamia.

La colonna infame fu atterrata nel 1778; nel 1803, fu sullo spazio rifabbricata una casa; e in quell'occasione, fu anche demolito il cavalcavia, di dove Caterina Rosa,
L'infernal dea che alla eletta stava,
intonò il grido della carnificina: sicché non c'è più nulla che rammenti, né lo spaventoso effetto, né la miserabile causa. Allo sbocco di via della Vetra sul corso di porta Ticinese, la casa che fa cantonata, a sinistra di chi guarda dal corso medesimo, occupa lo spazio dov'era quella del povero Mora. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap VI -)

Manzoni chiude la sua opera ricordando il frammento del Parini sulla colonna infame nel quale il poeta fa purtroppo eco alla moltitudine. E’ una chiusa graffiante.

Quando, tra vili case e in mezzo a poche/Rovine, i' vidi ignobil piazza aprirsi./Quivi romita una colonna sorge/In fra l'erbe infeconde e i sassi e il lezzo,/Ov'uom mai non penetra, però ch'indi/Genio propizio all'insubre cittade/Ognun rimove, alto gridando: lungi,/O buoni cittadin, lungi, che il suolo /Miserabile infame non v'infetti.

Venne finalmente Pietro Verri, il primo, dopo cento quarantasett'anni, che vide e disse chi erano stati i veri carnefici, il primo che richiese per degl'innocenti così barbaramente trucidati, e così stolidamente abborriti, una compassione, tanto più dovuta, quanto più tarda. Ma che? le sue "Osservazioni", scritte nel 1777, non furon pubblicate che nel 1804, con altre sue opere, edite e inedite, nella raccolta degli "Scrittori classici italiani d'economia politica". E l'editore rende ragione di questo ritardo, nelle "Notizie" premesse all'opere suddette. "Si credette", dice, "che l'estimazione del senato potesse restar macchiata dall'antica infamia." Effetto comunissimo, a que' tempi, dello spirito di corpo, per il quale, ognuno, piuttosto che concedere che i suoi predecessori avessero fallato, faceva suoi anche gli spropositi che non aveva fatti. […]A ogni modo, Pietro Verri non era uomo da sacrificare a un riguardo di quella sorte la manifestazione d'una verità resa importante dal credito in cui era l'errore, e più ancora dal fine a cui intendeva di farla servire; ma c'era una circostanza per cui il riguardo diveniva giusto. Il padre dell'illustre scrittore era presidente del senato. Così è avvenuto più volte, che anche le buone ragioni abbian dato aiuto alle cattive, e che, per la forza dell'une e dell'altre, una verità, dopo aver tardato un bel pezzo a nascere, abbia dovuto rimanere per un altro pezzo nascosta. (Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame - cap VI -)

L’effetto comunissimo dello spirito di corpo “per il quale, ognuno, piuttosto che concedere che i suoi predecessori avessero fallato, faceva suoi anche gli spropositi che non aveva fatti” vorremmo davvero sia soltanto riferito a’ quei tempi.  
Gilberto M.

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34 commenti:

Manlio Tummolo ha detto...

Caro Gilberto,
mi hai preceduto: avevo intenzione di parlarne nella mia "storia" del sistema penale. Pazienza o forse meglio: un classico esempio che dimostra come la mentalità inquisitoriale, malgrado progressi vari (giuridici, formali, di metodologia), sia cambiata poco nelle sue strutture fondamentali e nei propri meccanismi. Del resto Manzoni scriveva la sua storia del "passato" per indicare anche l'attualità del suo tempo, in modo non perseguibile dalla censura. Leggerò con attenzione il tuo articolo.

Manlio Tummolo ha detto...

Vedo, Gilberto carissimo, che il tuo è più che un articolo, un vero e proprio saggio con sistematiche citazioni del lavoro di Manzoni, che, non dimentichiamo, fu nipote di Cesare Beccaria, e non solo scrittore di romanzi, tragedie e poesie, ma anche uno storico e studioso, critico del Diritto.

La dettagliata descrizione di quell'orrible indagine (che era allora di uso metodico generale, malgrado le prime proteste spesso anonime di studiosi della procedura penale) spiega dettagliatamente che il vero motore degli inquisitori non è la ricerca della verità, ma la soddisfazione criminale del loro senso di onnipotenza, che deriva dall'avere nelle mani un uomo qualunque, individuato in un certo modo.

Ciò che il Manzoni forse trascura, sull'"unzione pestifera", è la parte di verità che quel fatto poteva avere: una forma di guerra batteriologica. E' noto ad esempio che, fin dall'antichità, c'era l'uso dell'avvelenamento dei pozzi, da parte di agenti infiltrati ad esempio nelle mura di una città assediata, o perfino l'uso di materia infetta da peste o altre epidemie, disastrose a quel tempo, appunto per stroncare la resistenza di una città. Già allora, nel romanzo lo è detto con precisione, che la peste si trasmette per contagio, ma non si sapeva il "come". Certamente erano noti casi di "unzione pestifera" nel senso che ho detto. Nel romanzo, quando un monatto salva Renzo in fuga proprio su un carro di cadaveri di appestati, la follaccia che l'aveva preso per untore e voleva massacrarlo, viene scacciata dal monatto lanciando uno straccio tolto ad un appestato, e la gente se ne fugge.

L'ipotesi, dunque, dell'"unzione pestifera" non era proprio del tutto campata per aria. Ma ignorando l'esistenza di batteri (Galilei era agli inizi con l'invenzione del suo microscopio), ignorando le esatte modalità della cosa, la possibilità di una guerra "batteriologica" veniva vista da giudici, da cronisti del tempo (i primi "giornalisti"), dai banditori delle famose "gride" e quindi dalla disinformatissima opinione pubblica del tempo, nelle forme che il Manzoni giustamente critica e combatte. Ma, sono oggi forme, come giustamente sottolinei, alla fine che "mutatis mutandis" le stesse di allora, malgrado la maggior cultura, malgrado le norme di garanzia procedurale, ecc. Questo spiega come la stampa oggi si comporti come le donnette del Manzoni e come gran parte dei lettori o telespettatori diventi come la follaccia che voleva catturare Renzo Tramaglino, "povero untorello" (mai fortunato quando si recava a Milano !).

Tanto a te, quanto a Massimo Prati che offre generosamente il proprio spazio a tutti noi, la massima riconoscenza per questo tuo scritto che molto insegna a chi vuol imparare (per gli altri si sa, non serve nulla: restano fissati nei loro pre-pre-pre... concetti).

Anonimo ha detto...

Caro Manlio
Ringrazio te e Massimo per voler definire saggio quello che è soltanto un articolo che ha lo scopo di indicare ai lettori, che non lo conoscono, il testo manzoniano, sollecitando magari riflessioni e commenti per attualizzarne il contenuto. Si tratta soltanto di alcuni spunti e osservazioni rispetto a un’opera in genere oltre che poco conosciuta anche piuttosto fraintesa da gran parte della critica per via di un pregiudizio di natura storiografica. Le tue osservazioni sono preziose caro amico e mi aspetto di poter leggere il tuo articolo perché il mio vuole sollecitare i lettori interessati a portare il loro contributo di riflessione. Conoscendo la tua competenza giuridica mi aspetto senz’altro un lavoro che incida più in profondità sull’opera in oggetto. Gilberto M.

Manlio Tummolo ha detto...

Mi dispiace, carissimo Gilberto, ma il tuo lavoro è più che esaustivo, anche sul piano strettamente giuridico. L'unica cosa da osservare, non a te, ma al Manzoni era quell'aspetto che ho rilevato e che, sia pure in minima parte, giustificava i sospetti sul fenomeno in esame. Manzoni con molta precisione delinea le cause della diffusione della peste con le conoscenze scientifiche acquisite nel '700 e nell'800; sottolinea anche, in parte per patriottismo, che nella Repubblica Veneta si presero misure preventive più efficaci, e questo è vero sicuramente, ma anche nelle terre allora venete, la peste colpì duramente spopolando molti centri urbani. E c'erano anche guerre in corso, guerre che non si limitano a battaglie, saccheggi e distruzioni, ma pure ad azioni che diremmo "attuali" di guerre con armi subdole.

Certo, tutto ciò non giustifica i torturatori in veste di giudici, ma spiega almeno in parte il fenomeno del sospetto nei confronti di certe persone.

Riguardo al mio piano di lavoro, comincero presto il mio nuovo saggio sul processo ai due "Gesù".

Anonimo ha detto...

Grazie Manlio per i tuoi apprezzamenti. Ti ringrazio anche delle tue doverose precisazioni. Rimango in attesa dei tuoi approfondimenti certo che alimenteranno il dibattito su un'opera senz'altro 'attuale'. Gilberto M.

carla ha detto...

caro signor Gilberto,penso che l'umanità non è pronta ancora a certi argomenti....è vero si è superato certi schiavitù,del tipo quando c'era GESù,quei dei schiavi dei neri,ma alla schiavitù mentale vedo che siamo ancora lontani dalla vera libertà.....ma ritengo ,per quei pochi che siano in grado di comprendere, è bene che se ne parli,altri primo o poi si sveglieranno e a volte serve passare per l'esperienze che la vita riserva....purtroppo più volte mi sono ritrovata di consigliare le persone,più delle volte ho scoperto che le mie parole,si comprende solo dal momento che c'è un vissuto....cordiali saluti
un caro saluto a Manlio e amici del blog

Manlio Tummolo ha detto...

Cara Carla,
osservazione molto giusta la Sua. Lo sforzo di persone, come Massimo Prati, Gilberto, Lei stessa ecc., è proprio quello di dare un contributo secondo le proprie capacità per liberare dalle forme mentali di schiavitù quante più persone possibili. Confrontandoci sui più vari piani, morale, intellettuale, storico, filosofico, scientifico, compiamo questo nostro dovere di contribuire insieme agli altri alla comune emancipazione, anche se non vi sono risultati immediati o appariscenti.

carla ha detto...

anzi sai che penso caro Manlio,che stiamo vivendo un epoca che non si dà tempo all'uomo di pensare,tenendolo occupati con cose esteriori del tipo la tecnologia,non sono quì che sto dicendo che non serve,anzi penso che se ne fà una mala uso,non si dà tempo di metabolizzare...è come dire:-"una casa costruita sulla sabbia",che basta un niente e puff la casa non c'è più....- e già il male si è fatto sempre più raffinato nell'operare.....buonanotte e grazie del complimento

Anonimo ha detto...

@ Gilberto
I tuoi saggi sono eccellenti ma complessi nella loro articolazione.
Vorrei rispondere ma per farlo devo leggerli bene ed ho bisogno del testo cartaceo.
Non sono molto pratica di computer.
E' possibile inviare i tuoi ultimi saggi alla mia email, puoi chiederla a Massimo.
Ti ringrazio di cuore e congratulazioni.
Vanna

Anonimo ha detto...

Cara Vanna
Con il tasto destro hai l'opzione di stampa, oppure puoi usare il copia e incolla. Non vedo dove sia il problema.
Saluti
Gilberto M.

Anonimo ha detto...

Grazie Gilberto, ci proverò.
L'uso del computer per me è ancora un problema.
Buonanotte e buona domenica.
Vanna

Anonimo ha detto...

mi si scuserà la "volata controvento" in questo consesso armonioso.
premettiamo un paio di punti fermi che non metto in dubbio:
- Manzoni ha ragione e i giudici secenteschi torto.
- gli errori metodologici rinvenibili nella storia del processo agli untori non sono un residuato di tempi antichi ma è possibile rinvenirne ancora nei processi e nelle indagini contemporanee.

Ciò detto io osservo che:
- parlare di un oggetto col vantaggio di due secoli di evoluzione culturale è "vincere facile", capaci tutti (esempio: mia figlia di cinque anni riderebbe in faccia ad una fanciulla dei primi '900 che avesse temuto di rimaner gravida per un bacio: è forse mia figlia "umanamente superiore" a quella fanciulla? o ha solo la fortuna di una evoluzione culturale e di una facilità di accesso alla cultura medesima?);
- partire dall'assunto: trascuriamo il contesto storico, il grado di sviluppo culturale e scientifico, il tipo di formazione dei giuristi secondo la scuola di pensiero di allora, le condizioni di stress psicofisico in cui si svolge l'azione; la mancata consapevolezza diffusa delle storture alle quali conducono il metodo inquisitorio e la tortura; l'anacculturazione diffusa che aumenta esponenzialmente all'andare indietro nel tempo; tutto questo, a mio avviso, equivale a dire "parliamo d'altro che non di ciò che spacciamo per l'oggetto del discorso".
- riguardo alla frase: "visione storiografica....connotata da una sorta di relativismo per il quale ogni fatto è inquadrato nella sua epoca...Tale interpretazione...riduce il giudizio storico a individuare i nessi tra i fatti senza ulteriore valutazione". Io chiedo, quale sarebbe la "ulteriore valutazione" demandata allo storico? bisogna ritenere sorpassata la nozione di storia quale disciplina che studia e sistema in un discorso organico eventi del passato tramite lo studio ("puro") delle fonti? Il compiere una lettura storica attraverso una qualunque lente ideologica o finalistica non è tradire la natura della storiografia stessa? La valutazione - morale, giuridica, etica, di costume, psicosociale ecc - di un evento o di un periodo storico non è esercizio demandato a figure diverse da quella dello storico?

Le mie sono domande sincere e da "persona della strada" alle quali attendo competente risposta.
ch.
- segue -

Anonimo ha detto...

- segue -
Intanto dico la mia: è corretta l'operazione di analizzare eventi e metodi del passato - e le loro conseguenze, funeste piuttosto che benefiche - onde trarne spunto di riflessione e insegnamento per il presente e il futuro. A titolo d'esempio: nel momento in cui si accerta che la tortura non conduce a confessioni o testimonianze credibili siccome incondizionate, essa va abbandonata come metodo d'indagine; nel momento in cui si accerta che il metodo inquisitorio non consente ad una parte della "verità storica" del fatto sub iudice di emergere, lo si abbandona in favore di un metodo accusatorio; nel momento in cui si prende atto della reale via di contagio di una malattia si abbandonano i metodi preservativi pregressi e se ne adottano di nuovi; nel momento in cui si accerta che un metodo educativo manesco produce più storture che vantaggi per la società lo si abbandona in favore di uno più proficuo; nel momento in cui si accerta che un certo fenomeno deriva da processi naturali si smette di offrire sacrifici agli dei che si credeva sovrintendessero al fenomeno medesimo e così via.... Ciò è giusto, sacrosanto, doveroso. E' però ingiustificato e (proprio in virtù della maggiore cultura acquisita) è intellettualmente ingiustificabile attribuire a coloro che operarono prima che tali prese di coscienza fossero avvenute o addirittura fossero possibili (si pensi alla microbiologia che dipende da avanzamenti tecnici imprescindibili) una responsabilità dolosa o colposa circa l'adozione dei metodi (a posteriori) errati.
Infine: è peccato d'arroganza e superficialità credere di poter ricondurre sic et simpliciter ogni pratica alla buona teoria - così come un generale programmerebbe il miglior piano d'attacco sulla carta topografica - senza considerare le mille variabili della sua attuazione concreta - il pantano causato dalla pioggia notturna, la buca imprevista, la nuvola che oscuri la luna, la dissenteria che colga la prima linea il giorno dell'attacco, che rendono arduo ai soldati seguire il piano del generale: se il generale mettesse al muro i suoi soldati non ammettendo che le variabili umane e naturali condizionano anche il migliore dei piani pur senza inettitudine o malafede degli operatori, egli non sarebbe un buon condottiero ma unicamente uno scriteriato buono solo per la biblioteca.
ch.

Anonimo ha detto...

N.B.
preavviso che il modo irruente della mia espressione non contiene in alcun modo la minima intenzione di attaccare qualcuno in questo luogo e che le espressioni "peccato d'arroganza e superficialità" e "scriteriato buono solo per la biblioteca" non sono nemmeno lontanamente rivolte ad una o più persone determinate.
è un semplice modo d'espressione, che solitamente mi esce quando scrivo di getto.
perdonate la digressione ma temevo ne potesse nascere uno spiacevole franitendimento.
se qualcuno se ne sentisse urtato, mi chieda pure tutti i chiarimenti o le rettifiche necessarie.
grazie :-)
ch.

Anonimo ha detto...

Caro Ch
Consiglio una rilettura più attenta. Mi sembra che di tutto il suo discorso l’unico punto che coglie nel segno sia a proposito della autocentralità. Infatti:
1)La concezione della superiorità del presente rispetto al passato (vincere facile) in forza di uno sviluppo storico culturale, scientifico e quant’altro è proprio di quella concezione storiografica che giudica il passato dall’alto di una sorta di superiore visione della storia. E’ tipico di un’epoca (la nostra) nella quale si presume di essere detentori di superiori strumenti interpretativi e di quella concezione del progresso che è appunto un mero fatto ideologico. (già il concetto di evoluzione culturale che lei usa è piuttosto equivoco e discutibile, connotato da elementi interpretativi che contraddicono proprio quella autocentralità di cui lei sembra farsi paladino)
Gilberto M.
segue

Anonimo ha detto...

Caro Ch (segue)
2 Riguardo alla astrattezza che lei rileva nella mia argomentazione, ribadisco una rilettura del mio articolo: ho riportato il testo del Manzoni che a sua volta ha utilizzato le fonti storiche desunte dal testo del processo (di cui non avremmo più documentazione se non fosse stato coinvolto il nobile Padilla)
3)Riguardo infine alla ‘autocentralità’ di ogni epoca storica, della quale si può essere astrattamente d’accordo, bisogna però dire che tale concetto presuppone che lo storico possa calarsi in un’altra epoca spogliandosi appunto da tutti gli elementi deformanti della propria. Cosa assolutamente impossibile. Questo però non ci sottrae al dovere di osservare il passato sforzandoci di comprenderlo per capire il presente nel quale viviamo. Uno storico (Namier) usava un aforisma paradossale dicendo che noi ‘immaginiamo il passato e ricordiamo il futuro’. Spero di essere riuscito almeno in parte a dare una risposta ai suoi quesiti e a replicare alle sue osservazioni (peraltro non banali). Gilberto M.

Anonimo ha detto...

@ Ch

Un’ultima notazione, visto che lei porta un esempio preciso circa la presunta superiorità informativa e l’evoluzione culturale della nostra epoca. Da frequenti indagini circa le conoscenze in campo sessuale degli adolescenti risulta tutt’oggi parecchia disinformazione in merito. In una recente indagine del Ministero della Salute risulta una diffusa ignoranza dei giovani in materia di sessualità. Patologie diffuse di cui molti non sono neanche a conoscenza, insicurezze e false convinzioni sull’argomento "sesso". Può darsi che come dice lei “una ipotetica fanciulla dei primi '900 avesse temuto di rimaner gravida per un bacio”, ma di certo le assicuro che, nella gran parte, le fanciulle di allora sapessero perfettamente come e se mantenersi illibate o non rimanere incinte senza rinunciare ai baci e alle carezze. Purtroppo nonostante viviamo nell’epoca dell’informazione, molte ragazze e ragazzi non conoscono né la fisiologia e né l’anatomia del proprio corpo e non è escluso che tra alcuni di loro allignino simili paure (mi risulta che nella scuola ci siano ancora parecchie resistenze, soprattutto nel nostro paese, ad affrontare l’educazione sessuale). Gilberto M.

Manlio Tummolo ha detto...

Caro Gilberto,
"CH" è, o dovrebbe essere, una donna di nome "Chiara" esperta di Diritto penale e di altre scienze giuridiche, come può verificarsi nel successivo Forum su Roberta Ragusa, dove le avevo appunto consigliato di mostrare nella zsede appropriata la sua "acculturazione" (bellissimo termine di derivazione britannica) in materia teorica e pratica di Diritto. Qui si scopre che ha anche una figlia espertissima in materia di sessuologia.

Naturalmente ho scritto così perché quando scrivo di getto, non curo le forme. Non vorrei che qualcuno si sentisse offeso.

Comunque del suo lungo disquisire una cosa non si è capita: facevano bene o male a torturare le persone, secondo l'illustre esperta di Diritto penale ?

Anonimo ha detto...

Gilberto:
mi sa che mi sono espressa male se ha creduto di ravvisare nel mio commento una critica a Lei o al Suo lavoro [la questione "2-astrattezza" proprio non la rinvengo tra le mie righe] e non invece, com'era nelle mie intenzioni, a quello del Manzoni: è lui che afferma che la contestualizzazione non sia sufficiente a spiegare il processo e i suoi esiti (mentre secondo me lo è, soprattutto considerata la formazione avuta da quegli juris prudentes) e che pare volersi ergere a culturalmente superiore a quei giudici "per natura", quasi egli (e tale superiorità) non fosse invece un prodotto del suo tempo come quelli lo erano del loro. E qui, mi pare di cogliere ma nel caso mi corregga, che sostanzialmente Lei concordi (al di là dell'inefficacia degli esempi che ho portato).

Ancora non mi è chiara la risposta su quale sia quella "ulteriore valutazione" che sarebbe demandata allo storico (non "inevitabilmente presente" ma proprio "demandata" mi è parso di capire) al di là di una ricostruzione (il più possibile) "scientifica e asciutta" dei fatti del passato [prima domanda]; ulteriormente, se ciò comporti un mutamento del ruolo che allo storico stesso è tradizionalmente affidato [seconda domanda]; ribadisco: la materia mi è estranea quindi la domanda non è polemica ma meramente conoscitiva.

Una frase mi interessa particolarmente nella sua risposta: "tale concetto presuppone che lo storico possa calarsi in un’altra epoca spogliandosi appunto da tutti gli elementi deformanti della propria. Cosa assolutamente impossibile"; conscia dei limiti della natura umana concordo e Le chiedo: non vige lo stesso "benigno relativismo" per il giurista e per il giudice in particolare? Si può pretendere da esso - pur sempre limitato e condizionato essere umano - un meccanicismo puro, astraente i dati del vissuto, della formazione e del contesto in cui opera? Spiego: fermo restanto che ciò possa essere auspicabile ma fino ad un certo punto - giacchè il suo operare è in funzione di una utilità sociale, anch'essa relativizzata e calata in un essere "qui ed ora" necessariamente condizionata dal medesimo "qui ed ora" - dicevo, è ragionevole pretendere dal giurista ciò che non si pretende da nessun altro? l'assoluta a-storicizzazione, la assoluta de-personalizzazione ed il tecnicismo più puro? [terza domanda]
infine: l'esasperazione del tecnicismo non rischia di finire per tradire la funzione di garanzia della pace sociale in funzione della quale tale tecnicismo è stato elaborato quale strumento? detto altrimenti, c'è giustizia laddove il tecnicismo è fine a se stesso e non più finalizzato ad uno scopo ulteriore (l'istanza sociale di giustizia)? [quarta domanda]
grazie.
ch.

Anonimo ha detto...

Gentile ch
Credo di aver risposto con cortesia e disponibilità nonostante l’ironica locuzione di esordio ‘consesso armonioso’. Le parole “è peccato d'arroganza e superficialità credere di poter ricondurre sic et simpliciter ogni pratica alla buona teoria - così come un generale programmerebbe il miglior piano d'attacco sulla carta topografica…” sono precise e rappresentano il suo punto vista legittimo che non condivido per quanto ho già detto (l’astrattezza teorica relativa alla argomentazione manzoniana che io non condivido). Non mi sembra che Manzoni si erga a giudice, legga bene, si pone proprio dal punto di vista dell’epoca in esame, nell’ottica di quei tempi il XVII secolo (il testo manzoniano è inequivocabile). Quello che dice lo dice proprio calandosi nella mentalità, nelle credenze e nel sistema giuridico di quel tempo: i giudici che condannarono lo fecero in spregio a quelle leggi e a quegli ordinamenti del loro tempo e in contrasto con le procedure giudiziarie e i procedimenti logico-deduttivi che non sono esclusivi della nostra epoca. La invito pertanto non a rileggere il mio articolo che è poca cosa, ma il testo manzoniano che mostra nel dettaglio come l’errore giudiziario non fosse dovuto alla tortura, alla mentalità del tempo, alle procedure o quant’altro ma alla superficialità e alla malafede. E’ chiaro che chiunque nell’ottica di un giudizio storico asettico si può appellare ad una autocentralità che assolve tutti, e questo varrebbe per ogni epoca storica. Le chiedo. Lei ha davvero letto il testo manzoniano? Se l’ha letto forse le è sfuggito qualche passaggio. Riguardo all’impossibilità dello storico di spogliarsi completamente dai condizionamenti della propria epoca era soltanto l’indicazione di una precauzione (e un sospetto) che doverosamente chi guarda al passato (non necessariamente lo storico di professione) dovrebbe sempre adottare. Il Manzoni mi sembra l’abbia fatto e in modo davvero encomiabile. Gilberto M.

Anonimo ha detto...

@ ch
Le altre domande che lei pone meriterebbero una trattazione ampia e complessa. Posso solo dire in una risposta telegrafica (siamo a livello di commenti) che i concetti che sta usando come “utilità sociale”, “tecnicismo” e perfino “a-storicizzazione” e “spersonalizzazione” sono connotati storicamente. Mi sembra che non ne colga l’autoreferenzialità (vedi il paradosso del mentitore). Il discorso ci porterebbe troppo lontano, mi creda, oltre il campo giuridico, nella logica formale e nella epistemologia. Cordiali saluti. Gilberto M.

Anonimo ha detto...

Gilberto:
Le assicuro che Lei vede ironia nella locuzione laddove non v'era.
Detto francamente e spero che la franchezza non sia sinonimo di irrispettosità, nella Sua cortese replica vedo unicamente la ripetizione di quanto già ha esposto nel Suo saggio e che se, evidentemente, non ho colto prima nemmeno ho colto ora. Ma effettivamente è un problema mio, se vorrò capire rileggerò il testo manzoniano, pur ribadendo che non mi accontento della affermazione autoriale "mi atterrò allo spirito dei tempi" ma che vi cercherò una rispondenza nel metodo effettivamente usato. Non dubito che la troverò, non avendo difficoltà ad affidarmi al giudizio di chi, indubitabilmente e senza ironia di sorta, l'ha studiato assai meglio di me (al tempo in cui lo lessi non possedevo gli strumenti per comprenderlo compiutamente).
Sul resto, certo mi dispiace non poter avere anche una pur sintetica risposta e dovermi accontentare della considerazione di autoreferenzialità dei miei concetti sic et simpliciter, ma ne prendo atto. A mia discolpa posso solo dire che non avevo ancora visto limiti di questo tipo ai commenti nel blog di Massimo Prati - o almeno non in relazione ai post a sua firma - e che la frase "Lo sforzo...è proprio quello di dare un contributo secondo le proprie capacità per liberare dalle forme mentali di schiavitù quante più persone possibili. Confrontandoci sui più vari piani, morale, intellettuale, storico, filosofico, scientifico, compiamo questo nostro dovere di contribuire insieme agli altri alla comune emancipazione" mi aveva evidentemente condotta fuori strada non facendomi comprendere che tali spirito e obiettivi fossero già compiuti.
Mi ritiro dunque in buon ordine; ancora sinceramente La ringrazio e saluto coridalmente.
ch.

Anonimo ha detto...

p.s.
mi sia consentita un'ultima chiosa, gentile Gilberto. Noto che nella sua frase "Il discorso ci porterebbe troppo lontano, mi creda, oltre il campo giuridico, nella logica formale e nella epistemologia" sembrerebbe impormisi un limite di comprendonio alla materia giuridica (o sbaglio?) e allora chiedendomi da dove derivi ciò non fatico a rinvenire la fonte, data la quale è già molto che non mi si limiti del tutto l'intelletto; allora, a mio sommesso avviso e a meno che non abbia completamente travisato le Sue parole, ciò rischia d'apparire espressione di pre-concetto in contrasto con l'intento di fornire "strumenti per la comune emancipazione da forme mentali di schiavitù".
Mi perdoni la sfrontatezza, se tale la considera, ma considero la coerenza la massima virtù del ragionamento. Se ho frainteso mi vorrà ancor più perdonare, considerando a mia discolpa l'umano incredulità di fronte all'intervento del signor Tummolo (che in ambito calcistico verrebbe definito "a gamba tesa") diretto a togliere preventivamente ed apoditticamente valore alla mia persona ed al mio intervento innanzi a Lei, che mai conobbi. E' così che si muove un intellettuale, che si vorrebbe sia schivo alle umane bassezze? con l'avvertimento ad altri di non dar peso all'interlocutore in base ad un proprio pre-giudizio? con lo sfottò? SERIOUSLY?? quante cose debbo ancora imparare nella vita....
amareggiatamente,
ch.

Anonimo ha detto...

@ Ch
Lei fa un processo alle intenzioni. Intendevo semplicemente che i problemi che pone meriterebbero una trattazione che non può essere confinata nel rettandolo dei commenti. Anzi la invito senz'altro a proporre un suo articolo a Massimo, son sicuro che il suo sarebbe un contributo interessante. Gilberto M.

Anonimo ha detto...

La ringrazio per la rassicurazione, Gilberto, e Le porgo le mie scuse per il processo all'intenzione.
ch.

Manlio Tummolo ha detto...

Per poter valutare un secolo o un periodo storico qualunque, è necssario averne una certa conoscenza. L'inizio del '900 era tutt'altro che arretrato rispetto a noi. Sul piano della ricerca scientifica (soprattutto fenomenologia del corpo umano), era avanzato quanto il nostro, che gli deve molissimo, come del resto ai tre sceoli precedenti, quando il permesso agli studi anatomici, consentì di superare le limitate conoscenze che risalivano all'età classica. Ciò che ora abbiamo, in questo come in altri settori, è solo frutto di una tecnologia estremamente avanzata che consente analisi superiori, ma anche questa tecnologia è frutto e risultato delle conoscenze acquisite in quel tempo (in ambito tecnologico e fisico). Certe parti dell'organo genitale femminile, ad es., hanno il glorioso nome di studiosi italiani, come dovrebbe essere noto, proprio del '600.

Così immaginarci le donzelle del XIX secolo e inizi XX come delle santarelline che nulla sapevano di come si fanno i figli, o meglio del fenomeno delle riproduzuione sessuale, è una credenza derivata da letture molto castigate circolanti nei monasteri. Certe studiose di Diritto penale nulla sanno di Paolo Mantegazza (morto nel 1910), studioso della fisiologia sessuale e del matrimonio, e divulgatore perfino in un romanzo dele nozioni di natura fisiologica sessuale ? Nulla sanno che, almeno nelle famiglie borghesi, circolava nei primi decenni del '900 un'ottima opera in due volumi sull'anatomia, fisiologia, patològia ed igiene del corpo umano della dott.ssa Jenny Springer "La medichessa in casa", pubblicata a Trieste dall'editrice Moscheni, come traduzione di un lavoro tedesco ? Nulla sanno di una delle prime dottoresse in medicina in ITalia (in Gran Bretagna fin dalla metà '800), quale ad es. Maria Montessori ?
Quanto alle famiglie non borghesi, contadini ed operai, ne sapevano magari in modo rozzo altrettanto. Uno dei primi metodi antifecondativi è descritto nella Bibbia (Genesi - Onan), ovvero il "coitus interruptus". In geroglifici egizi si sono pure scoperte ricette per abortire. Oltre ai profilattici maschili già conosciuti nel Medioevo, sicuramente già all'inizi del XX secolo si usavano i pessari o sistemi analoghi, per bloccare la marcia degli spermatozoi verso l'utero.
Allora le donne di certi argomenti parlavano molto, ma con le classiche risatelle femminili, col ventaglio e a bassa voce.
Vi è in natura un fatto fisiologico su cui, da millenni (basti leggere la Bibbia), non si può sorvolare né per i maschi, né ancor meno per le femmine, ovvero la pubertà. Un tale fenomeno, sconvolgente sul piano fisico e psichico, comporta l'esigenza per cui, bene o male che fosse, certe cose si dovevano spiegare, né si potevano lasciare sviluppare da sé. Il moralismo dell'età vittoriana impediva che se ne trattasse in modo troppo esplicito, chiaro, senza rossori e sospiri, ma comunque se ne doveva parlare, per forza di cose. Ovviamente poi c'erano casi individuali.
(segue) .

Manlio Tummolo ha detto...

Quanto alla tortura, ne abbiamo critiche fin dall'antichità. A Roma, almeno fino all'Impero, era vietato torturare un cittadino romano. Come facevano allora i SS. Inquisitori del tempo ? Prendevano i loro schiavi e li torturavano, onde potessero fornire infrmazioni sfavorevoli al loro padrone. Sull'umanità e i diritti dello schiavo si parla fin dal tempo di Seneca (almeno per quello che ci resta), nella lettera 47 a Lucilio. Più esplicitamente ancora della tortura parla Quintiliano nel suo "Institutio Oratoria" (Libro V, cap. IV), opera trascurata sia dai giuristi, sia dagli storici del Diritto romano, mentre è viceversa un poderoso sforzo di razionalizzare la professione dell'oratore forense in tutti i suoi aspetti e fin dalla fanciullezza, mettendo in evidenza l'incapacità investigatrice allora vigente, per cogliere la verità.

Per i tempi del lavoro manzoniano, andrebbero ricordati due gloriosi personaggi della storia del Diritto, quale Christian Thomasius per la Germania, Giuseppe Valletta per l'Italia, mentre il decantato Thomas Hobbes la considera procedura corretta.

Dunque, nella coscienza giuridica del XVII secolo si va già formando una consapevolezza etica che spinge al rifiuto verso orride pratiche sadiche che dimostrano soltanto il culto della forza, e per nulla quello della ricerca della verità su un fatto qualunque. Infatti, malgrado sia rigettata da tutte le Costituzioni e leggi fondamentali del mondo almeno occidentale (Russia compresa), nondimeno viene tuttora praticata anche nelle forme fisiche più raffinate e dolorose. PERCHE' ?

Il motivo teorico basilare è semplicemente questo, che va associato ai fattori di psicopatologia del torturatore: si pretende che fondamento del Diritto non sia la Giustizia, la Verità dei fatti, l'individuazione dei responsabili di qualunque illecito, ma sia la Forza: non a caso la simbologia ci fa vedere una donna alata, con bilancia e spada, e nelle cerimonie forensi perfino una mazza. Se il Diritto, o meglio il Giure, si fonda sulla forza, se la forza non viene intesa come semplice mezzo da usare proporzionatamente alla violazione della Legge e all'eventuale resistenza materiale, è facile giustificare ogni abuso, non proporzionato al fatto, della Forza.
Bisogna schiacciare in ogni modo colui che si ritiene il colpevole di questo o quell'atto contrario alla Legge. Si spalanca così la porta ad ogni abuso, ad ogni violenza, soprattutto quando da parte dell'inquisitore si manifesta senso di onnipotenza e gusto sadico nell'infliggere sofferenza. Il torturatore gradisce tutto sommato che il torturato resista, in modo da poter incrementare questa sofferenza, e si avvale della presenza di un medico, il quale rigettando i celebri ed antichi princìpi ippocratici, si fa servo dell'inquisitore e consiglia quando fermare la tortura, in modo che il cuore e il cervello del torturato reggano la sofferenza. Quando si vede che sta lì lì per morire, si interrompe per ricominciare, finché l'uomo cede e confessa. Di descrizioni abbastanza dettagliate ne abbiano diverse (ad esempio, la tortura che Pietro il Grande, "modernizzatore" della Russia, fece infliggere al figlio, che non voleva tale "modernizzazione").

Il compito della filosofia del Diritto fu, e dovrebbe essere tuttora, quello della razionalizzazione e moralizzazione delle procedure, attraverso la serrata critica dei sistemi vigenti. Spesso nell'infelice secolo XX ci si limita a discutere su parole, creando una filosofia del linguaggio del Diritto, piuttosto che uno studio sui fondamenti della Legge, della legislazione ed altro.

I risultati di questo bieco conservatorismo di mentalità arcaiche e selvagge, malgrado progressi tecnici e di facciata, spiegano perché non si cavino mai ragni dal buco, non si individuino colpevoli, si condannino innocenti, e si lascino vittime o loro eredi del tutto insoddisfatte di questi risultati.

Anonimo ha detto...

"Se il Diritto, o meglio il Giure, si fonda sulla forza...è facile giustificare ogni abuso, non proporzionato al fatto, della Forza.
Bisogna schiacciare in ogni modo colui che si ritiene il colpevole di questo o quell'atto contrario alla Legge."

vero. dolorosamente vero. è d'altronde difficile chiedere al solo giurista di ergersi a superuomo impermeabile alle trappole inconsapevoli dell'animo umano che assai spesso, prescindendo dalla cultura ed anzi spesso facendone spada, colpisce l'altro vedendo in esso sempre un avversario da abbattere e assai meno volte un'occasione di crescita. Gli esempi di sprecano....
dall'altra parte della medaglia, poi, si trova l'atteggiamento opposto degli organi di Giustizia, ossia quello della assolutizzazione e decontestualizzazione, insomma del fraintendimento, di formule e concetti sacrosanti (il favor rei, la presunzione d'innocenza, la funzione rieducativa della pena per dirne alcuni) i quali laddove slegati dalla ratio ispiratrice che non è mai dimentica del resto degli elementi in gioco e spesso non coordinati con altri (la proporzionalità tra delitto e pena, l'effettività della pena medesima a titolo d'esempio) conduce all'eccesso opposto compiendo stavolta un torto alle vittime dei reati.
Tutto si trova in questo mondo ma la merce più rara - e vieppiù preziosa - è proprio la giusta misura.
ch.

Anonimo ha detto...

@ Ch

Quello che lei afferma è vero, tautologicamente vero, troppo generico per non essere vero. Mi sarebbe piaciuto però che lei - che dimostra un vivo interesse per quanto attiene alla giustizia - entrasse nel merito se non del mio articolo almeno dell’opera manzoniana. In tal caso quello che dice con formula generalissima (e dunque condivisibile) avrebbe trovato riscontri (in positivo o in negativo) nel processo specifico ai cosiddetti untori Mora e Piazza. Invece non trovo nessun riferimento né all’opera manzoniana e né al mio articolo (sul web è inoltre reperibile Il processo degli untori fatto in Milano anno pestis 1630). Dispiace che le sue osservazioni si mantengano solo su un piano di petizioni di principio senza entrare mai nel merito con precisi riferimenti ai documenti (come invece io ho fatto sia pure nel ristretto spazio di un articolo). La invito nuovamente a produrre un suo lavoro entrando specificamente nel tema per dimostrare le sue tesi e non semplicemente affermare dei principi tautologici. Gilberto M.

Anonimo ha detto...

Gilberto:
Non trova agganci all'opera manzioniana ed al Suo lavoro per il motivo più evidente: non v'erano. D'altronde avevo l'impressione che anche il commento di Tummolo se ne fosse sganciato e fosse andando oltre, ma evidentemente gli occhi mi hanno ingannata. Nè mi pareva che l'affermazione sul permanere del metodo della tortura nel mondo contemporaneo contenesse "precisi riferimenti ai documenti", com'è normale che sia trattandosi di un dato di fatto e non invece di una teorizzazione diffusa alle stampe ufficiali. Analogamente "l'altro lato della medaglia" di cui parlavo io - in maniera sintetica come mi era stato indicato - è anch'esso un dato di fatto rispetto al quale non posso che portare mere esperienze.
Ad ogni modo, senza che nè io nè Lei sprechiamo ulteriore inchiostro virtuale, Le confermo che fortunatamente per tutti sono in grado di leggere tra leziose righe e cortesi espressioni, la sostanza di una sonora pedata.
Quindi, cortesemente e leziosamente, saluto.

Manlio Tummolo ha detto...

Veramente vi era stato un invito ad approfondire un argomento, da un punto di vista personale, e non ricalcando e ricopiando pezzetti di altrui interventi. Ma "cortesemente e leziosamente" si cerca di svicolare, mancando la vantata formazione da cui la discussione partiva. Non dimentichiamo che l'interlocutrice in questione era intervenuta dicendo di volare "controvento" a proposito dell'accordo espresso da altri commentatori sul tema proposto dall'Autore del saggio. Solo che né si è visto il "volo", né il "contro", ma solo un debole venticello.

Altro è cercare di indovinare chi sia l'assassino, altro meditare e discorrere su temi di filosofia del Diritto in generale. Ecco perché sugli adultèri, con morti o sparizioni al seguito, vi sono tantissimi interventi, non così sui temi e sui princìpi che sono alla base di ogni ricerca, compresa quella sui delitti (anche perché negli spettacolazzi televisivi non se ne parla).

PINO ha detto...

@ TUMMOLO
Impagabile il suo ultimo periodo. Pochi sarebbero disposti (per insufficienza informativa?) ad affrontare discorsi su argomenti che esorbitino dalla "ricerca...dell'assassino", e similari.
Pino

Anonimo ha detto...

bello il "pulpito"!

Manlio Tummolo ha detto...

Il pulpito ? Quale pulpito ? C'è un sacerdote che parla o scrive ? Oltre che anonimo ed innominato, non è neppure esplicito. Gli eroi facili non mancano mai.

Pino Carissimo,
almeno chi, nei blogs, si proclama conoscitore di tali problemi, potrebbe pure avere il coraggio di esporre il proprio pensiero in maniera diffusa. Massimo Prati, nostro generoso ospite, non ha mai escluso nessuno, anzi si è sempre detto disponibile alla pubblicazione di lunghi testi.