mercoledì 7 agosto 2013

Retoriche del consenso: Pinocchio... Pinocchio...

Di Gilberto M.

“Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una vocina sottile e carezzevole, come quella di un gatto che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa. Tutti i ragazzi, appena lo vedevano, ne restavano innamorati e facevano a gara nel montare sul suo carro, per essere condotti da lui in quella vera cuccagna conosciuta nella carta geografica col seducente nome di ‘Paese de’ balocchi’” - Collodi - Le avventure di Pinocchio


Nell’immaginario del potere politico esiste quello che una volta era il capo e che oggi - con una terminologia più sfumata ed attenta a paludare tutto quello che suoni come pericolosa reminiscenza storica, viene denominato leader. Un anglismo che non ricorda troppo quel dux, più capo che guida, più condottiero di guerre cruente che di battaglie ideali. Nel costante utilizzo, nel mondo politico, di termini inglesi non c’è solo un provincialismo che si ammanta di parole più o meno esotiche, una intentio a rivestire e imbellettare il discorso con termini vaghi, che il più delle volte hanno un referente italiano molto più preciso e specifico (non a caso la nostra lingua possiede un lessico più vasto di molta terminologia anglosassone spesso caratterizzata da parole ambiguamente polisemiche). Non si tratta solo di una riedizione di quel parlare che crea una cortina fumogena attraverso il linguaggio, un utilizzo delle parole per stupire, confondere, occultare... infinocchiare. Un trasformismo da prestigiatore per dire e non dire, per fare e non fare (più un disfare e un raffazzonare), per lasciar intendere esattamente il contrario allo sprovveduto ascoltatore di turno. 

No, non si tratta solo di questo, non è soltanto un espediente truffaldino per costringere a ingollare qualche pillola amara facendo credere che si tratta di una medicina miracolosa e per giunta buonissima nel sapore e nell’odore, perfino con i crismi di un’estetica raffinata usando all’uopo l’ingrediente lessicale con il suono più appetibile ed evocativo, con perfetta pronuncia oxoniense (Ognuno all’uopo può stilare un florilegio di parole che fan da sostituto, anzi da alfiere e da staffetta per altre che, papale papale, avrebbero quella spiacevole vocazione di dire pane al pane e vino al vino). Si sa che il linguaggio talvolta possiede quella propensione a dissimulare più che a svelare l’arcano che si cela dentro le cose, quei segni astratti, dei nomi che talvolta più che idee universali paiono concetti decettivi e ingannevoli.

Il leader rappresenta per l’elettore la proiezione delle sue fantasie, dei suoi desideri e dei suoi bisogni. La parola in se stessa, più che significare in senso denotativo (un preciso significato lessicale senza ambiguità e senza reticenze), connota emotivamente, suscita un’ondata di emozioni e di vissuti che attingono alla memoria personale dell’elettore, alle sue esperienze e alle sue competenze in quanto gregario, sostenitore, simpatizzante, collaboratore o semplicemente osservatore. L’emozione la fa da padrone, è il lievito dell’esposizione di un programma politico. Senza il lievito emozionale un comizio diverrebbe solo una relazione, una dissertazione più o meno erudita, un sommario, una noiosa elencazione di propositi e di cose da fare (o da disfare). Parlare al cuore più che alla mente, solleticare la fantasia, appellarsi alla vista, al tatto, perfino all’olfatto, a quel lato recettivo ed eccitabile dell’elettore, alle sue papille gustative… 

La sensibilità ha una sua gradazione, un'attrazione o una ripugnanza epidermica che rimanda a una regia più o meno accorta nel saper risvegliare le pulsioni inconsce dell’uomo della strada e soprattutto giocando con i suoi desideri e sulle sue paure ancestrali. L’intuizione e l’affezione talvolta prendono sonore cantonate, il sostenitore, o comunque l’elettore, sembra basarsi su quell'impressione immediata. Il leader sa che occorre soddisfare le esigenze dell’utente, venirgli incontro, parlargli con il cuore in mano, infondergli speranza anche a costo di dissimulare, giocando con le parole e con quei sottintesi così carichi di inquietudini e di promesse, così pregni di ansie e di aspettative. Occorre dire proprio quello che il sostenitore vuole sentirsi dire (che altro se non la lusinga, quelle promesse spudorate appese all'amo?). Non si tratta di un contenuto informativo specifico, non riguarda nozioni e idee (forme) che possano trovare riscontro e verifica nel contesto di una ratio socio-politica o di un programma che non sia uno zibaldone, un intruglio miscelato con un colpo al cerchio e l'altro alla botte. Occorre costruire una sorta di avatar, l’astrazione personificata dell’italiano, un pinocchietto da muovere col filo come certe marionette. 

Occorre blandire il target, assecondarlo, farlo sentire protagonista, fargli credere che è lui a decidere, che quelle riforme e quelle leggi che si vogliono approvare è proprio lui a chiamarle a gran voce, a pretenderle, a invocarle per il bene del paese.  Un pinocchietto di legno appeso a un tutore si può muovere a piacere, si può fargli far l’inchino e davvero far parlare come se il burattino avesse una sua di voce e non fosse prestata da un ventriloquo. L’importante è che il puparo non si veda, che il pupo sembri davvero muoversi con le sue di gambe e soprattutto che ragioni con la sua di testa. Si tratta di quell'evanescente e scaltro gioco da illusionista, di una mano lava l’altra, di una tassa abrogata per sostituirla con una nuova (il gioco dei quattro cantoni), di una abilità da prestigiatore che attrae l’attenzione dove fa comodo distrarre l’osservatore dalla vera posta in gioco (il suo voto e il suo consenso, che altro?). Promesse formalmente vere, salvo omettere che c’è contropartita, che l’entropia, il disordine, comporta conseguenze e provvedimenti che non si nominano per pudore; o se si nominano si usa l’eufemismo, le circonlocuzioni, quei giri di parole che riportano invariabilmente a cambiare etichetta alle parole, e soprattutto alle cose. Insomma si può dire tutto e il suo contrario, basta usare un altro registro, la formula appropriata, cambiare tutto per non cambiar niente, sostituire qualcosa con qualcos'altro che di diverso ha solo il nome, modulare il linguaggio con estro inventivo, dicendo vino al pane e pane al vino. 

Per il resto non occorre disturbare il conducente con inutili note a margine, con obiezioni che devono riguardare solo gli addetti ai lavori. Il supporter (uso anch'io un termine suggestivo ed evocativo del dilagante lessico sportivo) in genere non si pone problemi ermeneutici, e neppure di teoria politica; no, è più proteso verso quelle formule che ricordano certe pietanze dal sapore indistinguibile o certi profumi dal sentore indefinibile e ineffabile, con tanto cloruro di sodio per dissimulare qualche eventuale défaillance gastronomica. Si tratta di evocare immagini, inarcare ricordi, suscitare sentimenti, agitare stendardi contro lo schermo di un cielo azzurro immacolato, il fondale scenografico dove l’occhio si perde in profondità illusorie. Sì, è come nell'iconografia di quegli affreschi religiosi dove sorridono serafici santi e cherubini. Ora si tratta di un teleschermo dove brillano le sostanze eteree, pixel che disegnano le idee sublimi e dove arde la speranza di un mondo migliore: format costruiti col taglia e incolla, assemblati con emozioni sterilizzate, standardizzate e incelofanate, evasioni in scenari da cartolina sull'onda di una commozione da feuilleton e una ilarità da avanspettacolo. Si ride… si ride… davvero sul niente, e si piange, si piange... dal ridere.

I contenuti di un programma politico possono variare con la rapidità del lampo, quello che ieri era buono oggi può non essere così attraente per via di nuove alleanze e di una diversa composizione di interessi, negoziazioni dietro le quinte (ma questi sono dettagli che non devono riguardare il sostenitore appesantendolo con oneri inutili ed orpelli indecifrabili). Basta riferirsi a un mutato scenario internazionale, alla crisi economica, alle finanze in rosso. Quello che è semplicemente un gioco di equilibri/smi tra diversi interessi, diventa una ragione finanziaria, un’esigenza di bilancio. Si tratta di espedienti, opportunismi, machiavellismi. Ma non è lì che si gioca il consenso. E’ invece quella forma invisibile della comunicazione che rappresenta il continuum, la garanzia di un rapporto fondato sulla fiducia, la fedeltà, l’ammirazione... perfino l’abnegazione fino al martirio, fino alla cecità, per il supporter nei confronti del suo leader (o della sua squadra del cuore, che non si discute, si ama e basta, come per il santo patrono). Si va a votare turandosi il naso come osservava il grande giornalista? No di certo. Quale fraintendimento!! 

Oggi esistono straordinari prodotti che coprono perfino le idee olezzanti, spray al profumo di violette che rendono gradevole programmi dai dubbi sentori, essenze al ciclamino che si sposano con certi profumi da latrina, toupé che fanno apparire rigogliose anche le teste di legno più vuote ed insulse. Miracoli dell’arte cosmetica e del travestimento. Un tempo era l’ideologia... a farla da padrone, cecità indotta da idee cristallizzate nelle visioni utopiche, vangeli e testi sacri griffati col marchio ecumenico, eticità appiccicate con la colla o inculcate a forza con amorevole assiduità educativa; il leader era in qualche modo la sua ipostasi, l’idea materializzata in un volto e in un corpo, quasi la versione laica di un’autorità teologica. Non che l’integralismo sia al tramonto, tutt'altro, è vivo e vegeto e in perfetta forma, travestito coi panni di un ideale ecumenico di proselitismo e di salvezza. Il detentore della verità suprema, quella che lo fa essere una sorta di angelo alato, considera gli altri come territori di conquista, come anime da ammaestrare, come soggetti da redimere, come mezzi per un fine ideale di vita eterna. Per il loro bene i dissidenti e i diversamente orientati si possono perfino costringere entro gli schemi, reprimerne l’originalità, vincolane le scelte autonome... costringerli a viva forza a indossare gli abiti dei santi e dei beati in nome del bene comune, della salvaguardia del benessere collettivo, della verità disvelata...

Ma sono le parole democrazia e libertà che appaiono ora in tutti i discorsi, in tutte le orazioni e in tutte le omelie (anche quando bisogna fare i salti mortali per dimostrare che non si tratta esattamente del suo contrario). Parole abbastanza vaghe ma così auliche e altisonanti da risultare sempre in perfetta sintonia con l’ideale che ciascuno riconosce intuitivamente, ‘a pelle’, come un déjà vu, quel luogo da sempre coltivato nell'anima, sia pure nel modo indotto artificialmente da una propaganda martellante più simile a una reclame che a un’idea del mondo iperuranio. Sì, si tratta di quel riscontro a un modello, qualcosa che ci appartiene intimamente, anche se non sappiamo bene cosa sia... quell'idea che sappiamo buona anche se non si conosce la ricetta, non se ne possiede la formula specifica, ma sicuramente c’è del prezzemolo. L’uso linguistico di termini come libertà e democrazia, rimanda a quel sistema sociale e statale che colui che parla e il destinatario mostrano di ritenere auspicabile e degno di essere propugnato, anche se l’uno e l’altro hanno magari referenti lontani e incomunicanti, identità d’etichetta più che di sostanza. La chimica del prodotto rimane misteriosa, salvo per quella suggestione che fa cantare tutti in coro davanti a uno sventolio di bandiere: immagine suggestiva, edificante e... ineffabile. 

Un sistema che più che altro è un vago sentire, una idealità un po’ plastificata e un po’ amorfa, qualcosa come una scossa emozionale, uno stimolo pruriginoso che sale dalle parti basse, più che scendere dal cielo delle sostanze impalpabili. Il problema è che in una comunicazione vuota di contenuti o con elementi formali indeterminati (o definiti attraverso altri che sono ancor più imprecisati) risulterebbe difficile capire come avvenga l’incontro affettuoso e carico di empatia tra il leader e i suoi adepti (sia organicamente inquadrati nel ‘partito’, sia folgorati sulla via di Damasco in un improvviso connubio amoroso). L’adesione ideologica a un programma dove si afferma la natura indeterminata e ubiqua di idee e concetti - dai quali dovrebbe trascendere la realtà operativa del fare concretamente politica - pare dettata da altri elementi formali che rimandano sostanzialmente al concetto di immagine (non solo visiva) e di slogan (non puramente verbale).

Il carattere dello slogan concettuale (con la sua carica di stereotipi emozionali) ha via via lasciato il posto a una quintessenza immateriale: il volto trasfigurato del leader, il tono e la qualità della sua voce (un flatus vocis ricco di sfumature e di timbri sonori evocativi), il logos o icona del partito (insieme agli stendardi e alle bandiere) e le sue credenziali organolettiche (quei sapori e quei profumi che inebriano il palato e qualche volta danno perfino alla testa).

La mimica facciale dei despoti del ‘novecento’, trasforma il capo in uno straordinario laboratorio cinesico anche grazie ai nuovi media come il cinema. Le immagini di repertorio degli autocrati anteguerra attestano la mobilità mandibolare e insieme le performance muscolari dei masseteri, nelle adunate oceaniche dove il timbro vocale amplificato risuona nelle piazze con quelle tonalità aspre e sanguigne, cariche di pathos ma anche di violenza e di minaccia. Le riprese e i cinegiornali rendono giustizia con i primi piani di quel legame espressivo tra la mimica facciale del capo (coordinata alla postura del corpo) e la suggestione dell’audience (soggiogata dagli effetti scenografici). Come appesi tra le arcate dentali del loro leader, soggiogati dal suo sguardo, intrappolati nelle performance muscolari di zigomi e labbra deformati in una espressività carica di aggressiva e impetuosa passionalità.  Si tratta di un volto amplificato, talora bonario e talora terribile, come può esserlo soltanto quello del capo: espressioni del viso più incisive di uno slogan, più eloquenti di una prolusione, più suadenti di una sirena. Le parole disincarnate dal volto di Medusa e dal loro timbro a percussione sono solo slogan flebili e mansueti. La parola senza pathos, senza quella irruenza violenta e imperativa, è soltanto una innocua controfigura del potere. Occorre innervarla non solo nel suono gutturale della laringe, nell'emissione d’aria tonante, nel suono rauco e graffiante…. occorre anche darle supporto nella postura, nella inflessione del capo e in un volto da Eumenide dove ciascuno possa riconoscere quello che sale dalle sue parti viscerali…

Il nuovo leader – dopo gli anni della guerra fredda - ha però abbandonato quel modello obsoleto, salvo qualche nostalgico del vecchio paradigma che permane nelle realtà soprattutto di provincia, dove piace ancora la battuta sordida e brutale e dove per far presa sui supporters talvolta si ricorre alle arti del trivio e alla risata sguaiata. Uno stile ad usum delphini, usando un approccio che sappia interpretare il carattere rustico e casereccio di un supporter non ancora affinato agli equilibrismi diplomatici e ai paralogismi semantici. Le metafore linguistiche di certi leader accessori (fiancheggiatori promiscui e controfigure sostitutive, meri surrogati del leader principale) rimandano a un po’ a quella piccola patria manzoniana, a quei “monti sorgenti dall'acque ed elevati al cielo” a quelle “cime inuguali”, ma senza il pathos dell’illustre milanese, senza la commozione e la dignità della propria terra da preservare nell'ecologia dell’anima e del territorio. Una piccola patria che, più che perseguire la salvaguardia del suolo natio, ne rivendica l’uso arbitrario e spregiudicato, più che ascoltare la voce di antiche tradizioni e tutelare il proprio patrimonio di idee, si rinserra in antichi pregiudizi rivendicando chiusure e preclusioni con quei muri che un tempo i comuni erigevano non solo per difendersi dal Barbarossa... 

I leader aggiornati ai dettami della ‘nuova temperie culturale’, hanno invece fatto tesoro della filmografia del dopoguerra, della nuova estetica dei modelli d’oltreoceano, delle opportunità sovranazionali, dell’apporto scientifico della psicologia sociale e dei media. Non più un nazionalismo becero, ma interpreti di una realtà internazionale dove la conquista si coniuga con l’evidenza del libero mercato, del mondo degli affari, della speculazione finanziaria. Il nuovo leader ha l’apparenza inoffensiva del gigione o l’aura mitica dell’eroe, il carisma del predestinato o l’attrattiva dell’uomo venuto dal niente. Sceneggiature dove si respira quell'aria da commedia, una finzione che ormai riguarda ogni dettaglio di quel vivere quotidiano apparentemente libero e svagato: l’illusione di un campo aperto, quel terreno di espansione nella metafora del far west dove alla fine arrivano i nostri. Al concetto di bene comune si è irriso con l’affarismo e la dismissione del patrimonio collettivo in nome di un laissez faire che per magia doveva trasformare gli interessi privati in pubbliche virtù, in un benessere che promana da un liberismo sfrenato (un po’ come nell'apologo dell’alveare di Bernard De Mandeville: vizi privati e pubbliche virtù). 

La privatizzazione ha trasformato il paese in un’azienda privata con interessi privati spacciati per beni pubblici. La crisi italiana nasce da un progressivo depauperamento della cosa pubblica, da una avidità senza limiti che ha spremuto energie e risorse di tutti, con l’appoggio dei governi e dell’organo legiferante ad usum fabricae, per realizzare quell'espansione finanziaria di pochi che di fatto costituisce la base dell’impoverimento economico, culturale e fisico, del nostro paese. Si è scambiato per economico (l’economia come salvaguardia e valorizzazione del patrimonio collettivo e non come sperpero) quello che era soltanto una speculazione privata spacciandola come la molla dello sviluppo, la panacea di tutti i mali, lo strumento che avrebbe trasformato il paese nell'eldorado. L’inganno per un po’ ha retto, l’espansione ha creato ‘ricchezza’ attraverso la dismissione e distruzione di immense risorse ambientali, culturali e sociali. Lo sviluppo è diventata la parola magica per giustificare qualunque violazione delle regole e per operare sul territorio in spregio alla sua salvaguardia, alla tutela della salute pubblica e alla conservazione dei beni del paesaggio e della cultura. Lo sviluppo economico è diventato l’alibi (e lo è tutt'ora) per giustificare qualunque provvedimento che fornisse carta bianca agli speculatori, qualsiasi comportamento in odore di affarismo, qualsivoglia operazione economica e finanziaria che promettesse posti di lavoro. 

Sì è perfino favorito una immigrazione selvaggia per creare un esercito di manodopera di riserva, per rendere ricattabili i lavoratori, per ampliare la base dei consumatori infischiandosene degli squilibri che tutto questo avrebbe provocato nel tessuto sociale, nel sistema dell’assistenza pubblica e dell’ordine pubblico.

Il nuovo modello di leader usa lo sberleffo, quell'ironica battuta che alterna alla violenza verbale quel suono suadente e quell'espressione da imbonitore che si serve non solo di invettive (e solo occasionalmente di minacce), ma anche di quel sorriso accattivante, un po’ ironico e un po’ disarmante. Non più la paura, ma la blandizie, la collusione, la complicità. Il bastone non c’è più, non almeno alla vista, è un inutile orpello da non sfoderare, tutt'al più si ricorda che è lì per le bisogna come estremo rimedio; la carota invece è servita su un piatto d’argento, anzi è come il companatico che si consuma quotidianamente, quasi un tramezzino da mangiare in fretta nella pausa pranzo, democraticamente, insieme ai propri dipendenti elevati dal rango di sudditi a quello di collaboratori. Il capo... è uno di noialtri che parla con il tono colloquiale di sempre, che non tergiversa sui massimi sistemi, che con una battuta arguta e mordace ti presenta per intero il suo programma politico, che con un folgorante aforisma disegna per intero la sua filosofia sociale... e con parole così semplici da essere intese anche dagli infanti. E’ lì che il supporter va in deliquio, per quella battuta preparata a tavolino, affinata davanti allo specchio con meticolosa cura per lasciar trasparire solo il necessario, alludendo a qualcosa che l’audience può interpretare a suo piacere, senza remore e cavilli che limitino il suo immaginario. 

L’indeterminatezza assurge al ruolo di intesa. In fondo si tratta di concepire l’elettore come uno strumento da accordare con un lavoro paziente di cesello, un pinocchietto da scolpire, un monello al quale indicare la strada che porta al paese dei balocchi. Il connubio tra il leader e il sostenitore non  è più soltanto come nel vecchio paradigma anteguerra, quello tra un capo (trincerato e inavvicinabile nel suo palazzo simile a un bunker) e un ‘affiliato’ (un po’ strabiliato e un po’ spaventato che volente o nolente si reca al comizio e va a votare). Il nuovo leader è quello democraticamente aggiornato secondo i canoni di un nuovo galateo. E’ un compagno di merende. Lui e il suo sostenitore sono come due amici di vecchia data, due compari di disavventure che si intendono anche solo con un cenno del capo, una battuta buttata lì... una pacca sulla spalla come tra vecchi compagni d’arme. Non c’è più bisogno di discorsi approfonditi, di noiose prolusioni, di comizi interminabili, di disamine accurate. Il leader sa che i supporters non hanno necessità di astrusi ragionamenti, hanno bisogno di una amorevole e accorata accondiscendenza, non solo di uno slogan (il viatico giornaliero del format televisivo), ma di quella vicinanza come tra fratelli, tra consanguinei che si riconoscono al volo senza tanti convenevoli, persone che hanno mangiato nella stessa greppia, fatto le stesse esperienze, vissuto i medesimi ardori, pisciato insieme senza reticenze. 

Il nuovo leader parla la nostra lingua, è uno di noi anche quando veste in doppiopetto, anche se non vive in un appartamento al piano rialzato, per quanto lui non vada a mangiare in trattoria e faccia le vacanze in una pensione a due stelle o direttamente nel parco municipale. Tra vecchi amici non c’è bisogno di sproloqui, basta un cenno, una battuta, un colpo d’occhio ed un sorriso tante volte simulato ed affinato al rallenty per un perfetto controllo muscolare. Anche quando si sottopone a estenuanti provini nei quali misurare, cronometrare, perfezionare e calibrare una perfetta e fotogenica performance televisiva , un timbro di voce con le altezze e le coloriture giuste… il capo sembra sempre improvvisare, gesti e sorrisi che hanno il fascino spontaneo dell’estro creativo, battute che sorgono con la naturalezza di una mente ispirata. Un Pinocchio senza fili, un attore senza copione e senza regia, un accattivante parlare a braccia senza più traccia della sceneggiatura. Il leader sa raccontare barzellette, accompagna le sue parole con quei gesti di intesa che accarezzano amorevolmente, con quella intonazione della voce talora squillante, talora pensosa, sempre suadente come il suono di un violino anche quando le note divengono stridule e aggressive. Le sue battute sono talvolta un po’ sopra le righe, magari un po’ spinte, perfino triviali? Non sono politicamente corrette? Sono le più apprezzate dai sostenitori. Le critiche e i sarcasmi sono poca cosa per i supporter che vanno in visibilio per il coraggio, l’ardimento e la spregiudicatezza del loro leader che gongola insieme a loro, si compiace per quell'effetto di consonanza, il feedback che fa vibrare all'unisono, quasi eroticamente lui e il suo popolo, impavido, sagace e baldanzoso. 

Sì, lui è proprio come uno dei suoi fautori, racconta proprio quello che loro amano ascoltare: una sintesi di tutto lo scibile umano concentrato in una sentenza folgorante, in un facezia divertente offerta con una serafica, sibillina e amorevole faccia di bronzo.

Il leader parla come mangia, la costruzione sintattica del suo periodare (con quel tono così ricco di improvvise impennate e di repentini quanto ironici acquietamenti) non richiede soverchio impegno mentale, segue le linee di una argomentazione elementare senza inutili circonvoluzioni, senza congiuntivi e condizionali che confondano e sollevino dubbi nelle menti innocenti. E poi il capo (quello verace) sa ascoltare paterno le lamentele e per tutti c’è un consiglio, un incoraggiamento, un buffetto o una carezza. Mangia pizza e patatine fritte, come qualsiasi frequentatore di centro commerciale, quando sta insieme al suo popolo di sostenitori; in quelle evenienze disdegna la nouvelle cousine e si mostra davvero come un cawboy schietto e premuroso ad accudire e governare la sua mandria. Le nuove icone non riguardano più il fascio littorio, il saluto romano, l’aquila, la croce celtica o la svastica – riguardano la realtà nata con lo sviluppo e il moltiplicarsi dei canali televisivi. 

Sarebbe però un errore scambiare la causa con l’effetto. Programmi spazzatura, volgarità, serialità e cattivo gusto, non possono essere la causa di un progressivo scivolamento in una sorta di paese dei balocchi con un’audience sempre più passiva di fronte al messaggio. Il consenso verso una televisione (pubblica e privata) che si caratterizza per una retorica di regime, scaturisce da una mancanza di strumenti etici, estetici e teoretici (in una parola culturali) da parte di un pubblico in balia di retoriche del consenso e di persuasori che hanno buon gioco su un’audience disarmata e senza strumenti. La distruzione della scuola pubblica, a partire dai decreti delegati del 1973, ha trasformato il singolo interprete (il cittadino) in una appendice ideologica, instillando valori preconfezionati e predigeriti. La trasformazione degli insegnanti in un mero ingranaggio di trasmissione, in impiegati al servizio di un’ideologia, sia pure spacciata per sistema democratico, ha comportato un impoverimento progressivo della cultura. La scuola piano piano è diventata un luogo precluso alla fantasia e alla creatività, salvo dichiararli come intento astratto. L’autonomia è diventata uno slogan dietro il quale si nasconde una sorta di centralismo democratico che controlla qualunque forma di difformità. L’insegnante è stato privato della sua autonomia e della sua originalità e gli alunni sono diventati pinocchietti. 

Tale medietà ha trasformato il discente in un esperimento mediatico (uno stampino in serie) privandolo di quella diversità di modelli educativi che è alla base di una capacità di operare distinzioni e scelte consapevoli. La scuola del conformismo ha intagliato un cittadino sempre meno in grado di rapportarsi in modo consapevole all'influenza dei media, la medietà di cui è stato fatto oggetto lo ha reso passivo ed inerte di fronte a un’informazione monocorde e standardizzata. La distruzione della scuola italiana è forse un caso unico nel panorama dei paesi occidentali. A una scuola che non educa e non offre veri strumenti, si sono sostituite altre agenzie ‘educative’ che hanno trasformato l’italiano nel personaggio collodiano. Mentre il Pinocchio di Collodi ha potuto diventare un bambino vero proprio attraverso le sue traversie, i suoi errori e le sue molteplici esperienze, l’italiano addomesticato e addestrato al conformismo e a una metodologia di regime, non è mai cresciuto, è rimasto un burattino bisognoso delle cure e dei consigli di una fata dai capelli turchini.

Le nuove icone hanno l’aspetto di cose immateriali: apparire, fingere, mostrarsi, dissimulare - così ben rappresentate da veline, letterine, vallette, olgettine, tronisti e quant’altro. Icone del niente, del vuoto, di un make-up di volti inespressivi, tutti uguali, chirurgie in serie, maschere dietro le quali si nasconde soltanto quel messaggio inconsistente che l’accorta regia trasforma nel luogo dei sogni, delle illusioni, degli specchi dove si occulta il volto del nuovo leader con la sua sceneggiatura, una fiction di attori con fondali di cartapesta, effetti speciali e molte comparse per rappresentare quel grande pubblico che sta sullo sfondo, un po’ stupefatto e un po’ ammutolito.

Sull'altro versante, la simmetria dell’opposto e diversamente equivalente, un altro leader rappresenta lo stesso sceneggiato usando un altro copione, gli stereotipi sono gli stessi ma lo stile è diverso; al cloruro di sodio si aggiunge un po’ di pepe col sarcasmo, un po’ di cultura (stereotipata e riverniciata per l’occasione) ma senza esagerare per non annoiare, giusto un’infarinatura di argomenti, ma non certo argomentazioni. Per comprendere il carattere monolitico della cultura italiana al di là di quelle differenze apparenti che creano l’illusione di un contraddittorio aspro e talora violento, con ideologie contrapposte, bisogna riandare a quella matrice comune che rappresenta l’humus sul quale si è sviluppato quell’uomo ad una dimensione. Il cattolicesimo è il marchio di fabbrica che, più ancora delle diversità ideologiche e perfino del laicismo e dell’ateismo più sfrenato, costituisce l’abito mentale acritico e dogmatico a fondamento e metodo di qualsiasi teorizzazione e speculazione politica. Si cita Dante, Galileo e Manzoni, confinandoli nel loro tempo, come cariatidi marmoree senza relazione alcuna con il nostro presente. La lupa dantesca “che di tutte brame sembiava carca nella sua magrezza, e molte genti fe’ viver grame…”, il processo a Galileo costretto ad abiurare in ginocchio e con lo spettro della tortura, lo stesso testo manzoniano che in un’ottica giansenistica è una critica dura a una religiosità di maniera (don Abbondio e la Monaca di Monza) sono confinati nel loro tempo, come se il retaggio storico fosse soltanto una curiosità da eruditi. Un humus di una religiosità inconsapevole, fondata sul catechismo, sulla adesione acritica alla tradizione, basato sull'automa pascaliano che è nell'uomo, nell'abitudine e negli atti esteriori. 

Al di là delle differenze, la matrice culturale è la stessa, un cattolicesimo da controriforma che ha costituito e costituisce la forma mentis, il substrato, l’essenza e la modalità di pensiero rigido, dogmatico, intollerante e monolitico di gran parte della cultura italiana (anche quella atea e miscredente). La creatività dello spirito italico si è sviluppata, nonostante tutto, spesso proprio in contrapposizione a quella atmosfera lugubre che si avverte a partire dal cinquecento. Dall'incipit squillante e libero dell’Orlando Furioso - “Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori, le cortesie, l'audaci imprese io canto, che furo al tempo che passaro i Mori  d'Africa il mare...” si passa al dolente e pensoso “Canto l'arme pietose e 'l capitano che 'l gran sepolcro liberò di Cristo. Molto egli oprò co 'l senno e con la mano, molto soffrí nel glorioso acquisto…” - del Tasso che prelude a quella cappa soffocante del seicento. Nella cultura italiana degli ultimi cinquant'anni regna lo stesso clima monocorde, la stessa assenza di fantasia e di apertura, un opprimente stereotipo che confonde la morale con il moralismo, l’etica con la precettistica, la religiosità con il conformismo esteriore. Per trovare un’opera di etica di alto livello che non sia il catechismo, bisogna riandare al dodicesimo secolo, in pieno medioevo, allo Scito te ipsum (Etica o Conosci te stesso) del monaco in odore di eresia Pietro Abelardo e a quel meraviglioso testo di una religiosità profonda che è l’Historia calamitatum (nella traduzione italiana 'Storia delle mie disgrazie', lettere di Abelardo ad Eloisa).

Le locuzioni “educazione alla pace, educazione alla tolleranza, educazione alla libertà, ”, i richiami pomposi e roboanti al sistema democratico, i riferimenti e le allusioni pedissequi a quei valori espressi da parole per lo più vuote e indefinite… questo è il carattere ideologico dell’altro corno della leadership. Come se bastasse usare le parole in questione - pace tolleranza libertà e democrazia - per decretare che a quelle parole corrisponda il contenuto che dichiarano. Si tratta solo di slogan. Quest'altro leader, il presunto oppositore, ha adottato in apparente contrapposizione il vocabolario delle buone intenzioni, degli stereotipi culturali, degli abiti su misura per un italiano medio, un pinocchietto costruito in serie. Non si tratta di argomenti, sono soltanto insulsi gridi di guerra, formule sintetiche di una propaganda senza referenti se non quell'abitudine ad amare l’immagine suggestiva, “quella favola bella che ieri mi illuse e che oggi mi illude”.

I caratteri organolettici di una politica dispensatrice di illusioni, sono in quei distillati di scienza e sapienza che divengono immagine, suono, sapore, odore e… languide carezze. L’immagine è un paradiso con le palme, un Robinson Crusoe, un naufrago del cielo, approdato all’Isola dei Famosi; un paradiso con telecamere e servizi igienici, medico al seguito e briefing giornaliero: quel senso di appartenenza all'Italia aziendale. Il suono è quello di un’antica melodia, un po’ ipnotica, che ci fa addormentare sul far della sera e risvegliare dentro quel sogno: un fascinoso centro commerciale, l’Eden con le palme di vetroresina e le scenografie digitali. Il sapore è quello del sale, l’elemento disciolto in quella liquidità che oscilla nella nostra anima, un mare di sapide illusioni acquistate con lo sconto della Carta Fedeltà. I profumi sono messaggi che giungono da inaudite lontananze, essenze esotiche e misteriose che promanano da qualche take away.

Le languide carezze sono quelle delle bambole di ultima generazione, pelle sintetica con sudorazione simulata, attuatori e occhi languidi con iridi artificiali. Chip incorporati, un software con logica fuzzy. Hanno quell'aria fatale che risveglia fantasie e desideri proibiti... Gilberto M.


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8 commenti:

Manlio Tummolo ha detto...

Carissimo Gilberto,

una precisa descrizione sull'evoluzione ed involuzione del linguaggio e della cultura in questo nostro secolo, lungo e non breve (cone credeva l'ingenuo Hobsbawn). Ciò che, soprattutto mi ha colpito, nella prima lettura, è la tua capacità di analisi critica del processo distruttivo della Scuola Italiana, risalente ormai al 1973 (quarant'anni, quasi un terzo della storia unitaria italiana !), quando si è voluto trasformarla in una sorta di federazione di parlamentini, che, a loro volta, dovevano servire da scaletta alle gare politiche ed amministrative. In Italia, abbiamo avuto una Scuola-Caserma, una Scuola-Parlamento, una Scuola-Bottega, una Scuola del Nulla, ecc. Si può dire mai una Scuola-Scuola, una Scuola per educare ed insegnare, non per indottrinare, comandare o commerciare, sfornare slogans e porcheriuole del genere. Tutto ciò stato causa non piccola del successivo decadimento culturale, politico ed economico dell'Italia appunto dal 1973, anno della crisi petrolifera, i cui effetti ingigantiti ci trasciniamo avanti tuttora. La classe politica trionfante dopo la guerra, sotto spinta finanziaria delle Potenze vincitrici, fu tutt'al più capace di ordinaria amministrazione, ma asoslutamente incapace di reagire correttamente a crisi di natura straordinaria, come appunto fu quella del 1973 / 74, o alla pressione di certi estremismi, come negli anni Settanta ed Ottanta, alla crescente potenza della criminalità organizzata, e via discorrendo. Insomma una storia che, in forme ridicole e penose, è una vera tragedia per la nostra Nazione, ridotta peggio che ai tempi di Romolo Augustolo, quando pur avemmo, come dominatori, un Odoacre, un Teodorico, un Alboino, e da parte nostra un Severino Boezio e un Cassiodoro. Adesso chi ne sarebbe all'altezza ?

Vito Vignera da Catania ha detto...

Carissimo e grandissimo "marziano" Gilberto ho finito da poco di leggere il tuo articolo (sono sfinito),ormai sono diventato un tuo seguace lettore,e tu,il mio leader carismatico,il mio insegnate,ti seguo come un'ombra,ho tutto da imparare e nulla da perdere.Però sei un capo buono,non un dittatore,un leader che ama il suo popolo,che ascolta il suo popolo,che insegna al suo popolo,e tu mi stai insegnando tanto,grazie caro Gilberto.Ho trovato quest'articolo su internet molto interessante,spero di non sbagliarmi. " Molte ed estese zone dell’Asia vivono in condizioni di miseria estrema, con la sostanziale differenza, che qui sono presenti anche vasti strati di popolazione agiata, Università e centri di ricerca di altissimo contenuto tecnologico, come in India, dove la contrapposizione tra ricchezza e povertà è drammaticamente evidente, e dove la quotidianità di quanto si vede sconfessa chi afferma che oggi in questa nazione le caste, l’emarginazione dei poveri…è parte di un passato. Qui la miseria è così forte che quasi diventa un elemento di normalità, non ti stupisci di nulla, neanche che un bambino con degli handicap gravi viva nella strada…derubato di tutto…anche di essere persona. E quanti cercano di affrancare questi strati della popolazione, sono ostacolati dalle forze più conservatrici incapaci di riscattarsi definitivamente e pienamente da regole millenarie che negano di fatto la piena dignità a tutti gli individui al di là delle loro appartenenze.

Qui è normale che ancora oggi uomini scalzi e laceri portano altri uomini, senza che questi si sentano a disagio.
Ma come avviene tutto questo….come il mondo della ricchezza stabilisce le regole del gioco anche per i paesi poveri? Come potrà mai capire l’uomo del risciò indiano, o le donne ed i bambini che vivono nei campi profughi dell’Africa che il mercato ha leggi che vengono prima della loro fame. Per quanto ancora sarà paziente? Per quanto ancora potrà accettare che il prezzo di vendita di quello che lui produce sarà stabilito senza appello da altre donne ed uomini in una delle tre quattro grandi borse come questa di Wall Street? Per quanto tempo ancora accetteranno tutto questo.
Già nel novembre del 1999 Giovanni Paolo II ci ricordava:
…”Nel contesto dell’economia ‘globalizzata’, il problema del debito internazionale si fa ancora più spinoso, ma la stessa ‘globalizzazione’ esige che si percorra la strada della solidarietà, se non si vuole andare incontro a una catastrofe generale”.
E sempre a questo proposito ricordiamo le parole dei Vescovi Africani
….”in nome della solidarietà umana e cristiana vi supplichiamo di intervenire su i governi, su i leader politici ed economici, sulle imprese internazionali perché ascoltino maggiormente il grido angosciato dei nostri popoli vittime di questa ricerca sfrenata di profitto…”…

Quando Mosè scende una prima volta dal Monte Sinai con le Tavole della Legge trova il suo popolo in adorazione di un idolo del tempo della schiavitù. Ed oggi? siamo uomini e donne liberi? od ancora schiavi del Faraone?
- luca de mata - Ciao carissimo Gilberto,leader e scrittore.Ora ti faccio ridere un po,cosa che ti ho già scritto tempo fa sul tuo essere "folle", "sistema eliza",non so se tu sei folle,però può essere che qualcuno della tua famiglia lo pensi? ciao folle amico.

Anonimo ha detto...

Caro Vito
Non credo proprio di avere molto da insegnarti, non certo di più di quanto tu abbia da insegnare a me. Hai tutto per diventare uno scrittore, fantasia, logica, anticonformismo. Perfino qualche errore ortografico depone a tuo favore, lo dico te l’assicuro senza ombra di ironia. Il tuo periodare è ricco e immaginifico, di uno che non ha niente da imparare da nessuno. Ricordo la mia insegnante di lettere che quando si faceva un errore di ortografia non dava la sufficienza. Sono stato traumatizzato e ancora oggi talvolta mi assalgono dei dubbi perniciosi che si ripresentano periodicamente e che mi costringono a consultazioni ossessive e compulsive. Non sarà che ci vogliono due ‘t’ o che l’apostrofo… Insomma Vito, non c’è una scuola per diventare scrittori, è la nostra vita, le nostre esperienze. E poi ci sono scrittori ufficiali e scrittori ufficiosi, ma l'importante è essere scrittori veri. L’importante che la scrittura sia un momento di verità e di libertà. Al diavolo l’ortografia… Un abbraccio Gilberto

Vito Vignera da Catania ha detto...

Grazie caro Gilberto,che il SIGNORE ti conservi a lungo,e che la tua"arte" di scrivere serva un po a tutti,buona serata,e un cordiale saluto al caro Prof Tummolo.

Vito Vignera da Catania ha detto...

Carissimo Gilberto nell'augurarti una felice giornata ti dedico questi 2 bellissimi aforismi.
Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori: essi hanno le loro uscite e le loro entrate; e una stessa persona, nella sua vita, rappresenta diverse parti.
William Shakespeare, Come vi piace, ca. 1600.

L'uomo ragionevole si adatta al mondo; l'irragionevole insiste nel tentare di adattare il mondo a sé. Quindi, ogni progresso dipende dall'uomo irragionevole.
George Bernard Shaw, Uomo e superuomo, 1903.Ti abbraccio caro amico.

Vito Vignera da Catania ha detto...

No, questo mondo non è una finzione, non è solo la valle di prova e di passaggio a un mondo migliore e eterno, ma è uno dei mondi eterni, bellissimo e gioioso, e che noi non solo possiamo, ma dobbiamo fare più bello e più gioioso per chi ci vive con noi e per chi ci vivrà dopo di noi.
Lev Tolstoj, Diari, 1847-1910 (postumo, 1928/58) Buona giornata a tutti.

Vanna ha detto...

Gilberto buongiorno!
Ho atteso un po' prima di scrivere perché volevo proprio rileggere e gradire le tue considerazioni sulla realtà che stiamo vivendo.
Vivendo? No, stiamo subendo in veloce discesa verso il nulla.
Condivido tutto e in pieno, quello che hai scritto!
L'analisi che fai del linguaggio,
degli atteggiamenti,delle vuote proposte che ci vengono propinate è lucida e vera.
Hai trattato egregiamente la caduta della scuola, infatti stiamo messi molto male se siamo finiti nella classifica del 3° mondo.
Ho vissuto nel mondo della scuola sempre in trincea, in prima linea, portando avanti con entusiasmo tutte quelle proposte che ci cadevano addosso fino a sommergerci.
I Decreti Delegati e l'Autonomia del Berlinguer,l'illusione che la Scuola potesse diventare un'Azienda nella quale le famiglie e i docenti e gli studenti avessero un ruolo!
Gli unici che hanno avuto il ruolo diverso sono stati i bidelli che non pulivano più, per farlo c'erano le ditte, loro controllavano gli ingressi!
Il resto è stato un insieme di belle parole che ha portato solo disordine e sconquasso.
L'errore è stato nel voler modernizzare la nostra scuola credendo che attingere al pragmatismo angloamericano fosse il massimo.Ma le risorse non c'erano,le strutture anche, e si è accroccato il tutto senza metodo.
Anche nella gestione della scuola come nella politica, il danno è stato fatto prevalentemente da quelli che non hanno voluto vedere ed erano quelli della sinistra che avevano il mandato culturale di aprirsi al nuovo.
Non c'è stata lungimiranza, né un progetto autentico per cambiare in meglio.
Prima di rinnovare la scuola e avere la velleità di farla diventare un'azienda, dovevano mettere le mani alle strutture e renderle agibili per accogliere il nuovo.
Prima di togliere certi contenuti e metterne altri bisognava capire che erano necessari i laboratori.
Prima di mettere un notevole numero di insegnanti in più a girarsi i pollici con le compresenze,
bisognava creare spazi diversi.
La scuola si è retta fin quando sono rimasti gli insegnanti arcaici quelli che lavoravano con il metodo e si appoggiavano ai pilastri delle discipline, quando quelli sono andati via,tutto è scaduto.
Della creatività italiana cosa è rimasto?
Qualcosa è filtrato nella politica se per 20 anni abbiamo raggiunto il traguardo di essere stati governati con qualificata "creatività", con tanti burattini e marionette che recitano ruoli interscambiabili con grandi facce toste.
Berlusconi, imprenditore di destra, grande amico di Putin;
Napolitano, comunista, segue alla lettera i consigli del Patto Atlantico;
il Parlamento che non lavora;
30 e più Saggi che paghiamo;
elezioni fatte per avere un governo del non fare.
Solo una mente creativa può fare questo!
Grazie Gilberto il tuo scritto è di qualità letteraria per espressione e contenuto e l'ho apprezzato molto.

Anonimo ha detto...

Grazie Vanna
Credo proprio che tu abbia saputo interpretare anche tra le righe.
Gilberto