lunedì 15 aprile 2013

Chi ha ucciso l'Italia? Un Cold Case senza risposta per l'italiota di plastilina addestrato dall'assassino ai canoni del bon ton minimale...

Constatazioni realistiche di Gilberto M.


C’è da parte di molti una sorta di fastidio quando si parla dei Cold Case, dei vecchi delitti mai risolti, come se fossero temi per lettori maniacali o per assatanati del delitto, come se gli argomenti degni di trattazione fossero altri e altre le informazioni importanti per comprendere il contesto del paese in cui viviamo. In realtà per cogliere l’anima di un popolo in tutte le sue manifestazioni, da quelle istituzionali a quelle massmediologiche, attraverso quella vox populi che ne esprime gli abiti mentali e le idiosincrasie, non c’è niente di più interessante dei Cold Case. Si tratta di casi emblematici, di un modus operandi che delinea, prima ancora che delle modalità investigative, alcuni tratti caratteriali della personalità collettiva di una nazione. La metafora di un Cold Case è quella che un tempo veniva indicata anche con la situazione del thrilling, dove il caso irrisolto lascia spazio a una sorta di suspense o al dibattito tra colpevolisti e innocentisti. In fondo, di fatto, tutto nel nostro paese è un delitto irrisolto, una eterna e sempre precaria sospensione di giudizio riguardo al come al dove al quando e, soprattutto, al chi. Si direbbe che le problematiche da affrontare siano sempre le stesse, che si ripresentano, mutatis mutandis, come l’eterno e irrisolvibile dilemma amletico in forma indiscernibile. Come nel gattopardo si tratta di quegli effimeri cambiamenti per i quali tutto cambia per lasciare tutto uguale a prima. Un Pánta rhêi hōs potamós (tutto scorre come un fiume) alla rovescia, un niente che non scorre nonostante l’apparenza lasci intendere il movimento. Un paese dove i problemi non si risolvono mai e al contrario, semmai, si ripresentano tali e quali. Al massimo si modificano un po’ trovando colorazioni e forme diverse, ma sostanzialmente rimangono qualcosa di eternamente uguale a un’incognita: come i Cold Case appunto, invariabilmente insoluti, con l’assassino (anche metaforico) dato per incerto se non per assente o sconosciuto. Di cosa si sta parlando? Questo è il punto della questione. Si sta parlando delle solite cose: il movente, l’arma e perfino il luogo del delitto. Per l’assassino, poi, bisogna affidarci alla 'fede', alle 'prove scientifiche' o agli sciamani.

Parler pour parler sans avoir rien à dire (parlare per parlare senza aver niente da dire) è il primo elemento caratteriale. Si può parlare di tutto, del tempo (quello atmosferico), del sesso degli angeli, dei sogni o anche del niente, ma, per lo più e soprattutto, si parla di immagini, con tutta la potenza evocatrice che queste rappresentano, innescando comportamenti, atteggiamenti, prese di posizione, scelte. Si tratta della nostra immagine riflessa allo specchio. Quale specchio? La cultura di un popolo, che altro? Architettura, pittura, letteratura, filosofia, scienza, cinema, musica, teatro, televisione... che gli addetti ai lavori dovrebbero conoscere molto bene (ma non sempre), per lo più nell’ambito del loro orticello coltivato a monocoltura. In genere manca la visione d’insieme, impedita da una cronica miopia e dall’utilizzo di modelli un po’ datati e stereotipati. L’astrazione tra l’ottentotto e il parigino, per usare la metafora della “Lettera semiseria” del Berchet (manifesto del romanticismo) che all’inizio dell'ottocento rappresentava il gusto borghese, opposto sia all’intellettuale raffinato, "il parigino", sia alla plebe cafona, "gli ottentotti" - Quello che l’italiano medio conosce oggi è quel sentito dire, quei luoghi comuni che appartengono al suo immaginario di cittadino del mondo (quello delle veline informative, dei programmi televisivi d’evasione e dei viaggi in qualche Resort in giro per il mondo: una corroborante e rilassante vacanza, tra la spa e il ristorante, per conoscere le meraviglie da cartolina o le vestigia del passato). 

Cultura, per così dire, da diporto: non già da viaggiatori, ma da turisti usa e getta, da consumatori mordi e fuggi. Purtuttavia è un immaginario ben radicato nella coscienza collettiva, appiccicato come su un album delle figurine Panini. L’italiano medio vive in un mondo di riflessi e sogni (che oggi per molti si son trasformati nell’incubo di arrivare a fine mese), e quando sente citare Dante, Galileo, Manzoni, Verdi, gli scatta l’orgoglio di conoscere quei nomi come se si trattasse di citare qualche marca griffata, con quella sorta di familiarità che ci fa sentire a casa, la nostra casa immaginaria fatta di busti impettiti, sculture marmoree che ci guardano con quell’aria aristocratica e impenitente di eterne cariatidi, desuete ma anche un po’ sibilline. Sì, perché in fondo la cultura è quella dei nomi altisonanti o delle opere sublimi dei luoghi comuni, di quei luoghi e personaggi del nostro retaggio immaginario fatto più di orpelli che di entità reali, di quella retorica che trasforma tutto in un fluido mortale in grado di assimilarci in una appiccicosa melassa da spot televisivo. Un incipiente analfabetismo di ritorno che spesso confonde il diavolo con l’acqua santa. Come nei Cold Case si parla di cose che tutti crediamo di conoscere. E’ sufficiente ascoltare un programma dedicato con gli ospiti di turno, leggere l’articolo di un rotocalco o partecipare ad un forum per abbozzare, sic et simpliciter, un’idea precisa praticamente su tutto: dalla meccanica quantistica alla cucina molecolare fino alla ricostruzione di un delitto. In fondo per capire Dante, come esempio del nostro retaggio storico, basta il nome, come per qualsiasi altro prodotto di consumo (basta la parola) e si evoca tutto un mondo: la selva oscura, Virgilio, magari perfino il conte Ugolino, Firenze, il 'quanto sa di sale lo pane altrui' e qualche aneddoto spinto su Beatrice. Per Giuseppe Verdi c’è l’ultimo sceneggiato col 'Va, pensiero' e con la sua biografia romanzata. Per l’italiano vero c’è la commedia del cinema nella quale vengono dipinte e stilizzate le classiche idiosincrasie sordiane, manfrediane, fantozziane: vezzi e civetterie complete della sempre e immancabile identificazione proiettiva. Ah, dimenticavo i santi e i navigatori che insieme ai poeti non devono mai mancare per non lasciarci orfani di quell’immagine da Ulissi, Franceschi e Cecchi Angiolieri.

I Cold Case cosa c'entrano? C’entrano con la personalità dell’italiano medio. Quale personalità? Nessuna. L’immagine che l’italiano medio ha di se stesso è quella che dalla nascita alla tomba - dall’abbecedario alla casa di riposo passando attraverso tutto l’armamentario delle retoriche cine-televisive – lo riconduce sempre nella selva oscura, l’immagine che gli viene ritagliata addosso come se si trattasse di indossare un vestito preconfezionato, sia pure con la griffe. L’inferno dantesco in effetti è un chiodo fisso insieme al mantra del Nabucco e qualche altro topos come quell’aria, come si chiama... cantata alla bell’e meglio, talvolta con qualche stonatura fuori tempo, all’esordio di una partita di calcio. Per non parlare poi della Ferrari, di Valentino e di qualche cantautore che ci commuove fino alle lacrime, nonostante una retorica un po’ smunta e datata, e naturalmente dello stilista di moda del momento per confezionare quel qualcosa che dimostri tutta l’originalità dell’italico spirito creativo. L’informazione poi non prescinde mai da una dizione e una argomentazione che, per quanto contaminata da qualche inflessione dialettale (che fa tanto glamour), ha il tono alto e solenne delle retoriche inossidabili dello spirito democratico, dell’Habemus Papam, del Va pensiero, del neorealismo, del celodurismo e di qualche altra cosa come 'spaghetti e mandolino'... così pittoreschi. Ma i Cold Case? Ci arrivo. E’ il tema dello specchio, dell’identità che ci portiamo appiccicata addosso; non solo come un vestito attillato, ma addirittura come un tatuaggio, una scarificazione pressoché permanente in quanto prodotta da una tecnica di incisione e introiezione di quelle immagini subliminali che ci vengono proposte e riproposte con una pervicacia tanto martellante quanto invasiva. Ma vediamo di cosa si tratta, al di là dell’illusione culturale.

In primis c’è l’immagine di noi stessi indotta da tanta nostrana filmografia. E’ quella icona furbesca di un italiano abituato a sopravvivere in una quotidianità fatta di resistenze e opportunità, ma soprattutto di quella attitudine a far fronte ai colpi di una fortuna incostante (buona e cattiva sorte) invischiata talora coi palazzi del potere e camuffata da perbenismo bacchettone, o con quell’arte di arrangiarsi per poter affrontare il quotidiano mestiere di vivere. Da ‘ladri di biciclette’ fino a tangentopoli sembra che ciascuno in effetti abbia fatto la sua parte, chi più e chi meno, per sbarcare il lunario. Taluni rubando un paio di mele, furto buono per prendersi due anni di galera, e talaltri una manciata di milioni (di ‘euri’) senza prendersi neppure un giorno da passare in pretura. Per gli evasori fiscali soltanto un confino alle isole Cayman o in qualche altro paradiso esentasse. Che l’italiano sia così bravo ad arrangiarsi, a sopravvivere all’avverso fiume della fortuna, del quale Machiavelli ci ha parlato diffusamente, non è però del tutto comprovato, se è vero che troppo spesso lui si dimostra legato a modelli comportamentali (scelte più o meno obbligate) che ne fanno un apprendista stregone, un Calandrino sempre ingenuamente alla ricerca dell’elitropia. Il fiume in parola potrebbe essere quello che attraversa la Padania, entità di quella geografia dell’immaginario con i suoi muri da erigere, non si sa bene dove, e attraversato da quell’acqua sorgiva del Monviso raccolta da mani premurose e amorevoli in un’ampolla di vetro. Al "Hic sunt leones" (qui ci sono i leoni) si è sostituito, oltre la grande muraglia (virtuale) della nuova repubblica cispadana (proclamata con l’enfatico padroni in casa nostra), il territorio alieno della terra un tempo borbonica e quella del falso editto di Costantino. A quell’immagine che i cinepanettoni e gli 'scemeggiati televisivi' hanno dato all’italico spettatore ci si è adeguati senza fiatare, l’italiano medio si è riconosciuto italiota, perfino più ottuso dell’ottentotto e addirittura più scaltro del parigino

In assenza di una personalità definita, in mancanza di un background che non fosse quello della retorica delle feste civili e religiose, quella dei tromboni di turno a recitare un’omelia trita e ritrita, l’italiano medio riveste tutte le sue competenze in materia di sport col calcio in primo piano. La cultura del football nel nostro paese ha assunto una profondità di accenti, di amorevole intimità, di capacità e di risorse intellettuali da far invidia alla più prestigiosa università americana. Per il resto la televisione e il cinema (quello italiano davvero originale e pittoresco per quel tema monocorde con il quale descrive lo spirito italico) si sono incaricati di dare dell’Italia e degli italiani un’immagine nella quale il popolo peninsulare si è riconosciuto con lo slancio e l’entusiasmo del neofita. L’italiano ha finito per identificarsi nell'ircocervo di un personaggio un po' truffaldino e un po' ingenuo, un po' creativo e un po' zotico, un po' cialtrone e un po' altruista, insomma un'immagine per tutti gli usi e consumi capace di non scontentare nessuno. L’icona è stata stilizzata secondo l’idea che fatta l’Italia bisognava fare gli italiani; un popolo un po’ di bifolchi e un po’ di analfabeti da ammaestrare secondo i canoni di un bon ton minimale. Per quanto fosse davvero difficile farne dei bravi e scrupolosi apprendisti della convivenza civile, si è comunque potuto addestrare dei bravi soldati, memori dei passati gloriosi della Roma Imperiale, buoni per conquistare quel famoso posto al sole che si sognava... sia pure marciando con scarpe di cartone e sia pure perdendo la nostra sovranità nazionale, visto che siamo colonizzati e asserviti allo yankee americano

Nel dopoguerra si è provveduto a una operazione di vasta portata grazie al medium televisivo. Un po’ con i quiz e un po’ con le competizioni canore, l’italiano si è addestrato a riconoscersi in quell’homunculus cresciuto in provetta, un po’ in cabina, un po’ suonando la campanella del musichiere e un po’ ascoltando le melodie canore di lacrime e core così suggestive e pervasive. Ma sono stati proprio i consigli per gli acquisti a fornire finalmente quell’immagine bonaria e convenzionale, un po’ regionale e un po’ nazionale, di un popolo di santi poeti navigatori... e opportunisti. L’assenza di una vera moralità, di uno spessore di autonomi e personali convincimenti, è andata al passo con una religiosità epidermica da controriforma, basata sull’adesione passiva e acritica al culto e alla morale esteriore. La Chiesa ha fornito quel substrato di pratiche di culto, e più ancora di modelli mentali, sui quali fondare una personalità senza spessore e consistenza, ma comunque in grado di votare a comando, di scegliere in base ai consigli per gli acquisti e di imbastire quell’etica a geometria variabile della doppia verità, del compromesso e dell’accomodamento. Il sistema massmediatico ha per così dire trovato un terreno fertile e ben dissodato sul quale esercitare un’influenza senza quelle resistenze e opposizioni di una personalità consapevole di possedere una sua autonomia di giudizio e valori fondati su scelte individuali meditate nel profondo. L’italiano, così ben indottrinato a stare nel solco degli insegnamenti di Santa Romana Chiesa, a lasciarsi appiccicare la morale e i valori come fosse l’album delle figurine, si è dimostrato perfettamente addestrato e disponibile a intrattenere rapporti profani con acritica nonchalance e a farsi abbindolare dal personaggio e surrogato di turno senza opporre soverchie resistenze, ma soprattutto senza lasciarsi sopraffare da dubbi, da remore morali e teoretiche. 

L’abitudine a far da zimbello nelle dispute dottrinali e morali (si fa per dire), ha reso l’italiano modellabile come la plastilina, lasciandolo comunque perfettamente persuaso di pensare con la sua di testa e soprattutto di avercene una. Con la scuola degli organi collegiali si è finalmente raggiunta la perfetta quadratura del cerchio. Un’agenzia educativa che dovrebbe fornire strumenti concettuali e trovare consonanza in un insieme di regole e obiettivi comuni - fondati sulla volontà generale, sull’identità nazionale, sui quei valori culturali, su quell’identità storica tanto strombazzati - viene di fatto controllata dai media attraverso i consumatori di cultura nazional-popolare. L’autonomia in tutte le sue forme (fino a quella di quartiere) è diventata lo slogan con il quale il potere si è sottratto a qualsiasi forma di controllo attraverso un consenso fondato sul condizionamento operante. Le agenzie di influenza sociale fanno della scuola (attraverso le famiglie) soltanto una propria dependance, naturalmente con la connivente complicità del mondo politico. La scuola pubblica (pagata da tutti i contribuenti in vista di un obiettivo generale) è stata privatizzata come faccenda che riguarda non già la collettività, ma puramente l’interesse settoriale, familiare, particolare e ideologico… Il cittadino è diventato strumento di consenso proprio, dove avrebbe dovuto invece manifestare una vera autonomia di giudizio, e ridotto a una cassa di risonanza che ripete pedissequamente le formule che gli vengono suggerite, più o meno surrettiziamente, per impedire che la scuola divenga una vera agenzia educativa.

Bisogna quindi parlare di profezia che si autoadempie. Così come la falsa voce su una banca sull’orlo del fallimento determina effettivamente la sua rovina (potenza delle voci che corrono), così l’immagine che ci viene trasmessa in modo martellante e reiterato da parte dei media ha finito per convincerci che noi siamo come veniamo descritti, che quell’immagine ci rappresenta per davvero. Per la verità si tratta di una immagine abbastanza flessibile, in modo si possa correggere all’occorrenza, rimodulata e ritoccata quando serve di modificare l’assetto variabile del sistema paese, quando di punto in bianco bisogna dare qualche sterzata per riportarlo in carreggiata, attribuendo come al solito la responsabilità non già a chi ci ha governato (che comunque gli italiani hanno scelto) ma alla situazione internazionale, al tempo inclemente, all'opposizione scellerata, all’effetto serra e financo al periodo astrologico sfavorevole... con i sacrifici, comunque e come al solito, da addebitare ai soliti noti. Abbiamo finito per comportarci come gli eroi (e gli antieroi) che ci sono stati proposti fino alla nausea allo scopo di fornirci di un carattere e di una personalità secondo i canoni e gli interessi del manovratore di turno. L’anomia ha ridotto l’italiano a un replicante, a un cantastorie che ripete pedissequamente le favole che gli vengono raccontate, a una cassa di risonanza di tutto quello che è stato indotto a credere, compresa quella autonomia di giudizio che di fatto non possiede, ma che è buona cosa fargli credere di avere.

E' soprattutto l'immaginario che sovrasta ogni cosa, è la propria immagine che determina valori e comportamenti. L’immagine di sé, del proprio schema psico-caratteriale, promuove quel concetto di noi stessi di cui siamo in parte inconsapevoli. Sono i media che creando uno specchio più o meno deformante ci offrono quell’immagine che andrà a influenzare i nostri atteggiamenti, i nostri valori, perfino i nostri pensieri, i nostri sogni e i nostri pregiudizi. In realtà si tratta spesso di discromatopsia, una anomalia nella percezione dei colori. Qualcuno dice di vedere bianco ciò che per altri è rosso o addirittura nero. Il caso emblematico è quello del moderato. La parola evoca l’immagine di quel cittadino che, per quanto incazzato, si sfoga generalmente insultando chi sta nel riquadro, nel monitor del televisore... tutt’al più, in una improvvisa crisi, dopo anni di bocconi amari perde i freni inibitori e fa a pezzi l’incolpevole apparecchio televisivo. Nella vita di relazione il moderato si comporta invece con garbo squisito e tolleranza invidiabile. Non alza mai la voce e cerca la mediazione con atteggiamento paziente e razionale. Insomma l’idealtipo del moderato è quella di uno che non rompe mai i cosiddetti e lascia fare ai capi, ai Moderati con la emme maiuscola e con gli attributi adeguati ai quali invece (noblesse oblige) viene riconosciuto il diritto di incazzarsi, adirarsi e sproloquiare. Il termine moderato, così evocativo di serena dabbenaggine e pregno di una sostanziale insignificanza, evoca insomma quell’atteggiamento di pedissequa e acritica osservanza ai dettami del potere, salvo invocare i fulmini della giustizia divina come estrema ratio. 

L’astrazione limite del moderato si appella a quel buon senso comune fatto appunto di un’apatica accondiscendenza, a quell’immagine (un po’ appiccicata e un po’ introiettata) di un cittadino da talk-show che ride o piange a comando. Uno spettatore che se interviene è solo per assentire o addirittura per mostrarsi ancora più realista del Re. Sull’altro versante c’è il rivoluzionario, un tempo in eskimo, barba alla Fidel e kefiah, e che oggi aggiorna il suo look con uno stile più casual, con ventiquattrore, smartphone e computer portatile, un rivoluzionario un po' manager, con tutto il suo repertorio fatto di efficienza bocconiana e di realismo da dirigente in carriera, uno stile che ispira buon senso (quello del buon padre di famiglia) e competenza (quella sana adesione al presente, quell’evocare il futuro senza porsi troppe domande e senza quei voli pindarici di infantile memoria). Un rivoluzionario più che altro nel look da intellettuale a la page, da uomo di mondo che vede nel gradualismo cerchiobottista l’orientamento verso il futuro radioso, per quanto internazionalmente incerto, dell’utopia progressista.

Parlando di identità nazionale bisogna indicare anche quella immagine implicita che ci accompagna attraverso i programmi di intrattenimento che formano le nostre attitudini a modulare i ragionamenti con l’emotività o a scambiare per emozioni quelle che sono stati emotivi di celluloide. Le retoriche del consenso fanno leva su personalità permeabili in quanto subordinano l’inferenza logica a quell’immagine che dovrebbe costituire il nostro corredo genetico. In realtà si tratta di un’icona indotta artificialmente attraverso la banalizzazione, semplificazione, mistificazione delle nostre emozioni che acquistano un aspetto artefatto, simile a certe mostruosità della chirurgia plastica. La forza di un’immagine è tale da suscitare speranze e da indurre comportamenti in ragione di quanto si crede vero. La scuola da tempo non è più la principale agenzia educativa, per non parlare delle famiglie che di fatto delegano ai persuasori di massa – tv cinema e internet - e a quelle forme di aggregazione sul territorio non sempre codificabili. I processi educativi, poi, sono diventati sempre più settoriali, sulla spinta delle pressioni industriali, e gli studenti, perfino quelli che un tempo erano i licei, divengono sempre più alunni del cassetto, senza una formazione di base che dia loro degli strumenti per formarsi un’immagine personale ed autonoma della realtà globale in cui viviamo. L’incasellamento crea di fatto dei compartimenti in cui le persone si relazionano in modo superficiale, per il quale i valori condivisi e il senso del bene comune diventano concetti labili e indeterminati.

Un stuolo di tecnocrati che non vedono al di là del loro naso e del loro tornaconto personale sta trasformando il paese in un deserto, sia dal punto di vista fisico (la sistematica distruzione dell’ambiente), sia dal punto di vista psicologico (la trasformazione dei cittadini in sudditi robotizzati). Una classe dirigente cresciuta vuoi negli apparati di partito (con tutte le tipiche idiosincrasie ideologiche) e vuoi negli ambienti economico-industriali che misurano tutto in termini economici (l’economia miope del denaro e dell’uovo oggi), pare incapace di comprendere che si sta portando il paese sull’orlo della catastrofe. Nessun segnale di cambiamento, nessuna scelta consapevole e nessuno spunto creativo. Sarà come sempre: cambiar tutto per non cambiare niente fino al naufragio finale? Speriamo di no.

Ma insomma, che c'entrano i Cold case direte voi? Ci arrivo ora. Chi è l’assassino? Qual è il movente? Quale l’arma del delitto? Domande importanti che richiedono risposte non convenzionali. Partiamo dal movente. L’avidità, ma soprattutto il desiderio di controllo e di potere sulle persone considerate come cose. L’impoverimento culturale del paese, voluto dalle classi dirigenti con la connivenza di varie agenzie istituzionali e sociali, sta manifestando i suoi effetti a lungo termine. La politica dell’uovo oggi e degli interessi di parte, perseguita da alcuni decenni, sta portando tutti i nodi al pettine, mentre un elettorato sempre più miope e sprovveduto pare perfino incapace di capire in che direzione deve andare per riemergere dalle acque putride che lo stanno affogando. Prigioniero di schemi mentali, di promesse mai mantenute e dell’immagine di sé che ha assimilato attraverso i media, l’italiano sembra incapace di rappresentare altro per il suo futuro che quell’icona da opportunista sprovveduto e velleitario che non sa riconoscere il colpevole o che addirittura finisce per lasciarselo indicare proprio da chi ha portato il paese sull’orlo del baratro. L’arma del delitto è proprio quel bisturi chirurgico che dovrebbe risanare e che di fatto imprime nuove ferite a un paziente comatoso, che fa pagare ai soliti innocenti le colpe di chi non ha governato nell’interesse comune. Il luogo del delitto è ubiquo e indeterminato, e l’assassino ha il volto che non ti aspetti, quel volto che abbiamo introiettato, così simile al Grande Fratello, e che abbiamo imparato ad amare come se non fosse la nostra rovina... ma la nostra salvezza. Gilberto M.
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7 commenti:

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