mercoledì 13 novembre 2013

La politica italiana: una situation comedy tra fiction, reality e soap opera...

Di Gilberto M.


Se dovessimo rappresentare l’icona del nostro paese attraverso un genere televisivo che esprima in modo immediato e intuitivo quel miscuglio di comico e tragico, il palinsesto della vita politica, si potrebbe scegliere una sit-com. La situation comedy, genere un tempo nato per la radio, è poi stata rivitalizzata nelle serie televisive con quelle singolari ambientazioni quotidiane, quei piccoli universi monotematici (in genere un appartamento o un ufficio, ma senza escludere esterni plastificati ricreati in studio). In genere i punti di ripresa sono fissi (in Camera Café un solo punto di inquadratura). La scena del format non ha bisogno d’altro se non della loquacità e della vena creativa dei protagonisti (platealmente ricchi di humor e inventiva, anche se la recitazione talvolta risulta un po’ oleografica). L’ambiente ordinario e seriale agevola l’identificazione dello spettatore con i protagonisti anche quando questi sono personaggi sopra le righe, perfino improbabili, come extraterrestri o fattucchiere (un po’ di fiction e un po’ di magia).

Però i protagonisti parlano del nostro quotidiano con quella cadenza da vicino della porta accanto e con l’intuito che non ha bisogno di riscontri accademici. Sì, perfino i vampiri, gli extracomunitari e gli alieni hanno i nostri stessi problemi: il dramma quotidiano del mestiere di vivere. Le risate registrate, in sottofondo, disturbano un po’ la scena, ma comunque sottolineano i doppi sensi a un telespettatore distratto e dai riflessi lenti. Lo schema è a volte rigido a volte ripetitivo, ma ultimamente i personaggi sembrano perfino evolvere da una condizione ricorsiva a una storia che si sviluppa nel tempo, si trasformano in sintonia con il mondo ‘reale’, avvicinando il genere alla soap opera.

Le gag e le battute di una sit-com sono spesso esilaranti, folgoranti come meteore, hanno il gusto effimero di un gioco d’artificio: nel momento in cui se ne apprezza l’ambivalenza e il doppio senso sono già dissolte e nell’occhio e nella mente del telespettatore rimane solo un vago sentore di ironia graffiante e scontata, di déjà vu sotto forma di banalità caustiche, di luoghi comuni del nostro immaginario di fruitori abituati ai fuochi fatui della tv commerciale, quel mondo pirotecnico di paillettes e lustrini. Però la sit-com rimane un genere potenzialmente trasgressivo, nelle sue migliori espressioni, per quella capacità di affrontare temi imbarazzanti con leggerezza e nonchalance e, soprattutto, di fare il verso (e la satira) a quella commedia rappresentata dal nostro mondo politico (in genere espressa in dibattiti, confronti e interviste dove i punti di ripresa sono fissi come nella sit-com). La discussione segue proprio quel canovaccio dove sostanzialmente (in ogni puntata) non accade niente di eclatante se non quel dramma normale della contingenza, i soliti problemi quotidiani portati all’esasperazione, quella comicità indotta dall’assurdo dell’ordinaria follia. 

Le diatribe e gli scontri (un contraddittorio col fioretto e talora a colpi di clava) sembrano sempre l’ultima spiaggia prima del diluvio universale, la previsione più o meno apocalittica che riguarda la controparte politica messa alla berlina. Ma poi, e come sempre, tutto rimane in bilico per la prossima puntata e in noi resta la sensazione che qualcuno invariabilmente sia stato preso per i fondelli e che si sia trattato del classico gioco di rimessa: un teatrino della fiction con tanto di effetti speciali e di sceneggiatura fin nei minimi dettagli, la semplice simulazione di un contraddittorio preparato a tavolino.

La sit-com della politica tende a diventare soap opera, dramma a puntate (serial), fiction televisiva a lunga serialità per quella sua naturale inclinazione alla sceneggiata, quel melologo drammatico dove il tradimento, l’amore e l’onore sono pur sempre cavalli di battaglia di tutto rispetto insieme ai soliti topos delle tasse, il pareggio del bilancio e la concertazione. Una sorta di storia senza mai un lieto fine, solo la replica evocativa e inconcludente di un copione trito e ritrito. Il telespettatore con cadenza giornaliera ne è il fedele fruitore, non occasionale, in quei tg dei mezzobusti. Ma è nei salotti e in quelle arene della politica del contraddittorio dove i caratteri sentimentali e drammatici sono espressi dai primi piani e dai dialoghi intensi e passionali proprio come una situation comedy. La soluzione narrativa non giunge mai ad un esito definitivo, anzi si dilunga in quelle interminabili petizioni di principio, distinguo, precisazioni, allitterazioni, rettifiche, invettive... insomma, la drammaturgia convenzionale dell’universo della politeia con tutto il suo pathos e la sua carica emozionale.

La soap per definizione (e a differenza della telenovela) è idealmente una storia infinita dove gli attori passano a miglior vita e lo spettacolo continua attraverso il recasting (che in genere nella politica è piuttosto raro per la longevità professionale degli attori). Ciò che rimane è il contenitore nel succedersi degli eventi rappresentati in forma di drammi esistenziali e nazional-popolari (il romanzo delle masse anonime dei fruitori, la plebe da ingozzare).

Lo spettatore sa già che niente di straordinario potrà accadere, proprio come in una sit-com, è consapevole che la scena ripresenterà quel dramma quotidiano fatto delle prevedibili quanto irrisolvibili problematiche di sempre: sbarcare il lunario e riuscire ancora una volta a sopravvivere alla cattiva sorte e ai provvedimenti eccezionali del governo, quelli dell’ultima ora decisi per salvare capra e cavoli: la soluzione tra privilegiati e tartassati. Però la suspense è sempre palese: nel dibattito ci si aspetta l’atto risolutivo, la rivelazione choc, l’esito davvero emblematico, perfino la transustanziazione del pane e del vino… ben sapendo che sarà un pareggio, o comunque la solita vittoria di Pirro in attesa della prossima puntata dove gli attori ricominceranno l’interminabile partita, il palleggio delle responsabilità in un nuovo serial televisivo. L’umanità, quella così ben rappresentata dalle risate registrate di un pubblico virtualmente assente, trova sempre soluzioni per lo più precarie e raffazzonate, ma comunque in grado di portare avanti l’esistenza quotidiana usando quell’arte di arrangiarsi di cui noi siamo maestri.

Il dibattito dei rappresentanti del mondo politico ha tutte le caratteristiche della situation comedy. L’ambientazione, con quei prevedibili arredi essenziali, senza fronzoli (salvo qualche eventuale trasgressione eccentrica di gusto retrò), non solo il salotto buono ma anche quei tavoli riesumati della vecchia tribuna politica, quelle sedie minimali, poltroncine uptodate, quei giochi di luci che vestono lo studio come una chiesa cistercense o come un  teatro dell’assurdo alla Ionesco o alla Beckett. Luoghi essenziali e disadorni dove uomini vuoti, quasi invisibili presenze post apocalittiche, parlano con la verve delle formule convenzionali, sia pure imbellettate con una retorica manierata, con quei clichés dei luoghi comuni: tipi psicologici di un conformismo e di una banalità che sfida perfino il tragico di certi fools scespiriani.

La posizione delle camere di ripresa segue i principi di equanime e imparziale par conditio, non solo l’equal time, ma anche l’inquadratura più o meno asimmetrica, salvo eventuali criteri correttivi di rilevanza e peso elettorale, e perfino quel diabolico e surrettizio gioco della regia a giostrare sui profili, sugli sguardi, sugli ammiccamenti e sulle posture dell’interlocutore, un commento subliminale spesso più efficace di una replica verbale. Violazioni del galateo massmediatico, della netiquette e della grammatica della sit-com attraverso escamotage di altri generi cine-televisivi. Ma è soprattutto il carattere seriale e inconcludente che caratterizza la soap opera, creata all’origine con intenti pubblicitari (detersivi e saponi di aziende che si rivolgevano ad un pubblico prevalentemente femminile) e che nella fattispecie adotta invece l’intento propagandistico di contenuti tanto indeterminati quanto suggestivi del politichese: parlare per eufemismi, per perifrasi e reticenze, quando si vuol mascherare e nascondere... e per iperboli e reiterazioni quando si vuol tirare acqua al proprio mulino.

La domanda è d’obbligo. Qual è la soap opera più longeva della storia? I soliti ben informati diranno Beautiful, o meglio ancora Sentieri (The Guiding Light) con le sue quindicimila puntate, senza dimenticare il successo del nostro Un posto al sole e della tedesca Tempesta d’amore (Sturm der Liebe) che richiama per assonanza lo Sturm und drang dell’età di Goethe (ma si potrebbe citare anche il Decamerone del Boccaccio e Le mille e una notte come emblematici di un racconto che si sviluppa per stanze, giornate, novelle in cui il finale è sistematicamente differito per rendere implausibile un esito chiuso e definito).

Tutti sbaglierebbero perché è ormai appurato che la soap opera più lunga della storia è La politica italiana. La sua vicenda si perde nella notte dei tempi televisivi e rappresenta una fiction tra le più sbrodolate e inconcludenti di tutte quelle di maggior successo. È pur vero che rispetto all’epoca d’oro, quando il pubblico dei fedelissimi non si perdeva una puntata per non rischiare di perdere il filo della narrazione e trovarsi sperduti e negletti come un Pollicino nella casa della strega, ultimamente gli ascolti si sono di molto ridimensionati, come del resto in tutte le soap nostrane o internazionali. Il pubblico sembra aver perso interesse per un genere che ultimamente sta annaspando in acque torbide e rischia la disaffezione - nonostante il tema del clan tenda a rivitalizzarlo insieme a quello della successione familiare (la monarchia non passa mai di moda come ci insegnano i sudditi di sua maestà e il successo di Dinasty Dallas). Il format risulta impantanato nelle sabbie mobili infide e perigliose di serialità fotocopia (perfino gli scandali sembrano non solleticare più le fantasie dello telespettatore ormai assuefatto ed annoiato dal loro ritmo ripetitivo e monocorde). Si sente il bisogno di qualcosa di impatto, ad esempio di un reality show (anche in forma di telenovela), di un nuovo spin-off tirato fuori come un coniglio dal cappello, di un qualche personaggio minimale e insignificante (ma fotogenico e logorroico) che assurga improvvisamente a protagonista della scena politica mediante un buon curatore d’immagine. 

Vanno di moda perfino le storie minimali (storylines) con quei personaggi di contorno che fanno tanto glamour. Si vorrebbe un nuovo primattore consapevole che il daytime è ora composto da teenager, casalinghe inquiete, pensionati e soprattutto disoccupati davvero incazzati. Un target ormai rassegnato a prestare orecchio a qualsiasi speranza agitata dal novello imbonitore massmediatico spuntato come un fungo dalla sera alla mattina, dopo un talent show o un The X Factor per aspiranti segretari di partito, ad esempio. Il Primo applauso è quello che conta davvero, il Pop idol che balla con le stelle del firmamento rappresentativo. Una nuova icona dall’apparenza caustica e dissacrante, magari con la cadenza di un linguaggio regionale, dagli accenti spregiudicati e dalle intonazioni suggestive, quel parlare fuori dai denti e senza reticenze. Un attore consumato e proverbiale, un perfetto ingegnere di costrutti verbali, un paroliere estroso e accattivante con il fascino fotogenico dell’affabulatore del niente. Per non parlare della realtà internettiana dove il dibattito assurge a quadri espressionistici, talora surreali, nei quali la sit-com diviene performance e improvvisazione. Un po’ come il cinema alla Totò e alla Peppino de Filippo: fantasia ed estro narrativo senza il peso di inutili disamine e tirate psico-sociali.

Il reality show - una vita reale costruita a tavolino (in fondo lo spettacolo della realtà con tanto di psicologo e team medico al seguito e l'improvvisazione a far da copione) - è un genere televisivo diffuso un po’ ovunque dalla fine degli anni ’90 con quel Survivor che ne è l’antesignano. È un format  di grande impatto emotivo su un pubblico abituato da anni alla realtà virtuale della politica e del politichese. Il Grande Fratello e l’Isola dei Famosi sarebbero solo incomprensibili operine se lo spettatore non avesse avuto quell’imprinting delle democrazie rappresentative, quelle nomination ad eliminazione secondo qualche porcellum elettorale, il pigliatutto un po’ per estrazione e un po’ anche con qualche aiutino. Qualcuno si lamenta che non ha capito niente, che son fregnacce. Ma vivaddio, in democrazia l’importante è dare il proprio voto, la nomination con un o con un no, mettendoci una croce sopra, uno spunto, dove l’idea appare più consona, più allettante, più a la page, o semplicemente per quel ghiribizzo del personalissimo e legittimo estro personale che non si nega a nessuno. Al fondo è bello ciò che piace, anche in modo epidermico, meglio se è kitsch

Si tratta di quel tal dibattito televisivo secondo il verbo opinionista e il voto on-line, drammaticamente scandito dagli exit poll, fino alla proclamazione di un vincitore a cui spetta il premio finale. Il the show must go on è sostituito con un più realistico acta est fabula (passata la festa gabbato lo santo). Il sospetto è che i reality mostrino una realtà decettiva e fuorviante e che, come nel film The Truman Show, sia soltanto una accorta regia a muovere non tanto il povero Burbank (che fa lo gnorri come se non avesse discusso con la produzione perfino della percentuale sugli incassi) ma proprio quel pubblico ignaro di essere il vero ed occulto protagonista del format. Telecamere e microfoni sono appunto gli elementi invisibili, quegli stessi che nella prassi della propaganda politica sono rappresentati da slogan, suggestioni oratorie e immagini subliminali del tutto invisibili ad un pubblico che ormai non riesce a distinguere tra realtà e fiction, tra spettacolarizzazione del personaggio e il suo reale spessore culturale. Perfino i recenti casi di prostituzione minorile sembrano dimostrare come la realtà virtuale abbia a tal punto compenetrato le esperienze degli adolescenti, più fragili e permeabili alle suggestioni massmediatiche, da rendere loro indistinguibile il reale e la virtualità, la moralità e il trash. Naturalmente la scuola sta sullo sfondo a guardare, indecisa tra il pulp e il family life.

Il reality costituisce l’aspetto più innovativo di quella soap opera da tempo invischiata nei suoi meccanismi lenti e farraginosi che sempre più la rendono stucchevole e datata. Molti politici obsoleti escono provvisoriamente di scena, parcheggiati in un aggiornamento sabbatico per via di un copione non all’altezza con le fiction più spettacolari, quelle che si giovano dei più innovativi effetti con l’uso di computer graphic, luci laser, compositing digitale, 3D...  ma soprattutto la vecchia e inossidabile tecnica dell’imbonitore, i vecchi trucchi del prestidigitatore aggiornati con la console della Playstation. La politica spettacolo si serve di quel mondo al contorno, l’effetto alone di naufraghi approdati come Robinson Crusue sull’isola dei famosi, un milieu virtuale dove si può provare l’ebrezza di un reality senza gli oneri della sopravvivenza e identificandosi con i poveri naufraghi alle prese con le ristrettezze e le incombenze quotidiane, nell’illusione che in fondo stiamo meglio dei Famosi e perfino al riparo dalle perverse dinamiche psico-caratteriali del Grande Fratello. È come se all’uscita dal cinema di un film horror si tiri un sospiro di sollievo per il fatto che là fuori se non altro non si è ancora stati fatti a pezzi, che in fondo c’è di peggio della povertà e  della disoccupazione.

Il confine tra fantasia illusione e realtà, si fa sempre più precario e indeterminato. I dibattiti televisivi in teleconferenza sono su schermi divisi a metà, con interlocutori che lanciano strali a distanza, con volti in compresenza virtuale che si stagliano su sfondi alieni e incomunicanti. Si naviga tra le pagine web, tra i canali televisivi, tra i programmi di intrattenimento, senza bussola e senza sestante. Si rischia costantemente la sindrome di Stendhal con capogiri, vertigini e allucinazioni, e senza neppure trovarsi al cospetto di opere d’arte di straordinaria bellezza... ma semplicemente a qualche replica in differita, a qualche confronto tra vecchie cariatidi.

Per fortuna ci soccorrono i talk show, quei programmi  di stampo giornalistico basati sulle chiacchiere in diretta. La parola è un formidabile e onnipotente strumento di guarigione e di promozione sociale. Gli ospiti variegati (tra i quali figura immancabile un rappresentante della classe politica e sacerdotale) riescono frequentemente a dare parole di conforto a uno spettatore disorientato e scoraggiato, il viatico di consolazione a un target spaesato e depresso. I loro interventi chiariscono provvidenzialmente i drammi esistenziali, buttano luce sui casi delittuosi, apportano chiarezza sui temi sociali, rasserenano gli animi con il sostegno di parole di speranza: c’è una risposta provvidenziale per ogni argomento in discussione, dall’attualità fino alla telecinesi e alla telepatia passando per la vita privata e le esperienze personali (mistiche e sentimentali). In fondo l’opinionista non ha bisogno di consequenzialità logica, quanto di quel carisma con il quale evangelizzare il popolo dei telespettatori. La suggestione si serve dell’abito talare, del distintivo del parlamentare, della tessera del giornalista; ma anche del decolté alla moda fino ad arrivare persino allo sfoggio della mastoplastica additiva, della liposuzione e del lifting. Insomma, di tutti quei simboli del potere e della competenza estetica e protocollare.

Per le tribune politiche il palinsesto ha sempre un occhio di riguardo e l’accortezza del conduttore è proverbiale. Non si sa mai bene chi sia il vero ospite: se l’uomo politico o l’opinionista, se il conduttore o il rappresentante parlamentare. In fondo si vede bene chi è il proprietario (reale o virtuale), sia che si tratti di tv privata o di servizio pubblico (si fa per dire). L’uomo politico si muove con l’autorevolezza e la dimestichezza di chi ha l’autorità e la discrezionalità per ricompensare o fulminare chicchessia. Ed anche quando dovrebbe risultare un invitato sembra muoversi come uno che conosce il menù meglio ancora di quegli interlocutori un po’ vestali e un po’ valletti dall’aria impacciata e dimessa. La salvezza per i giornalisti è non essere indipendenti, usare il navigatore satellitare per orientarsi nei questionari. L’autonomia e l’andare a diporto senza Google Maps sono una sciagura come la peste o il malocchio. Chi non si lega a qualche santo in paradiso o è votato al martirio o alla disoccupazione. Per gli spiriti liberi e incontaminati c’è perfino il rischio mortale della caduta in disgrazia (le eufemistiche macchine del fango o i dossieraggi). 

Le tribune politiche sono spettacoli per menti o del tutto neutrali, anime angelicate che vagano nel mondo iperuranio facendo le domande più avulse e innocenti con il garbo svagato del nonsense (come porgendo un dessert di fragole e panna montata), o di demoni fiancheggiatori - che si nascondono sotto le mentite spoglie di interlocutori imparziali - del beniamino o del benefattore di turno, tanto diabolici quanto prevedibili. La prosopopea del giornalista (medio) italiano o è una sorta di affettazione e di sussiego verso il suo vero datore di lavoro (il potere occulto della rappresentanza politica), o è la spada di Damocle per coloro che osano anche solo trasgredire col pensiero senza avere un angelo custode che gli copra le spalle. La storia italiana è in quel connubio spericolato tra politica e informazione, tra dominus e dipendente, senza neppure una foglia di fico che copra le vergogne.

Per quanto riguarda gli spazi pubblicitari e il merchandising mascherato da infotainment, l’anteprima e gli sponsor, c’è sempre il vecchio feuilleton, la sezione specifica da dedicare all’evento. Per creare la giusta attesa, per catturare l'attenzione del pubblico e fideizzarlo, si predispongono promo, come fossero trailer cinematografici, tramite i collegamenti in diretta con Montecitorio o Palazzo Madama. Il romanzo d'appendice risale a quelle storie e romanzi pubblicati a puntate sui quotidiani dell’800 (come Eugène Sue con il suo romanzo più celebre: Les Mystères de Paris). Il romanzo a puntate, la moderna telenovela, rappresenta quella storia di redenzione del protagonista (solitamente al femminile per non scontentare il politicamente corretto). Si tratta di quella retorica inossidabile con la quale le moderne fiction saltano a piè pari l’universo interiore dei personaggi, il loro contesto socio-culturale e i loro vissuti conflittuali, per trasformarli negli sponsor di un sentimentalismo epidermico e convenzionale che addestri l’utente alle risposte programmabili. Dal tema socio-psicologico di Casa di bambola ibseniano, un femminismo non convenzionale e di denuncia in epoca vittoriana, si passa alla televendita tra spezzoni di telenovele con fotomodelle in fase di emancipazione nell’attualità dell’autentico femminicidio rappresentato da veline, letterine e olgettine (talvolta perfino convertite e trasfigurate nell’agone politico).

Ma il quadro della spettacolarizzazione sarebbe incompleto se non tenesse conto di quei programmi tematici culinari, danzanti, scientifici, di inchiesta e di gossip... di tutto quel settore specialistico nel quale lo spettacolo (e talvolta il teleromanzo) si mescola impropriamente e surrettiziamente a inconfessati (ma forse meritori) intenti di rilevanza politico-sociale. Attorno a un divano, a un piano cottura, a una pista da ballo e perfino a un asettico programma di divulgazione scientifica, si possono intravedere in filigrana interessi e addentellati con il mondo delle scelte e delle opzioni elettorali. Tutto quello che appare neutrale e accidentale nella tv, come quel divano della sit-com attorno al quale ruotano vicende minimali, è un reality dai contorni e dai retroscena opachi e imprevedibili.

E se il nuovo Reality in programmazione non ha ancora un’etichetta? E se i naufraghi Famosi diventano creature obsolete troppo scontate e troppo astute per essere ancora credibili? Niente paura, a tutto c'è rimedio visto che siamo stati promossi ed ormai siamo noi i veri protagonisti, noi i veri interpreti dell’avventura: siamo i Venerdì del vivere quotidiano, con tutte le sue insidie e le sue paure, per necessità e senza esigenza di copione. Sembriamo davvero meglio degli attori più o meno professionali e dibattiamo di tutto, dal sesso degli angeli ai cold case. Naturalmente sul monitor non ci finiamo, se non episodicamente con immagini di repertorio, eppure ormai abbiamo interiorizzato a tal punto la finzione da identificarci coi personaggi della telenovela. 

Con noi il demiurgo (l’autore televisivo) si è davvero impegnato creando un talk show di nuova programmazione che lo fa fremere nell'attesa di ricevere la nomination e chissà... forse perfino il premio Oscar per la miglior regia. Gilberto M.


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10 commenti:

Manlio Tummolo ha detto...

Carissimo Gilberto,
sei sempre precisissimo. Riguardo alla lunghezza della soap opera politica non solo hai perfettamente ragione nel dirla la più lunga, ma se prescindiamo dalla tecnologia di diffusione, essa risale - come si è detto più volte - ad almeno duemila anni. Leggendo Cicerone, o Sallustio o Seneca, vediamo che certa mentalità politico-amministrativa era già presente. A Pompei esistono tuttora scalfiti sulla pietra antichi slogans elettorali, anche allora con grandi promesse, mentre sottoterra il Monte Somma riaccendeva i suoi motori e la lava iniziava a risalire. Chissà se a Roma, Strasburgo e Bruxelles, sotto terra, c'è qualche ignoto Monte Somma, che si stia preparando a esplodere ?

Intanto, l'Uomo, tutto guglie e colombi, ma anche con le balls of steel ha già promesso nuove Olimpiadi in Italia, come un tempo si promettevano i ludi circenses, scontri gladiatori, finte battaglie navali e, soprattutto, leones contra Christianos, come più tardi giostre contro il Saracino, disfide con i Mori, disfide tra cavalieri, processioni, abbruciamenti di streghe .

Anonimo ha detto...

Carissimo Manlio
Purtroppo non sono mai stato un buon latinista, ho sempre navigato sulla sufficienza. Altrimenti avrei potuto fare delle esercitazioni di epigrafia romana, su quei supporti ben più duri di quelli digitali (pietre sepolcrali, basi di statue, stele, tavolette, cippi, colonne…). Non son sicuro che il blob avrebbe apprezzato uno spaccato della vita quotidiana dei nostri antichi predecessori… anche considerando che l’epigrafia era proprio un mezzo di comunicazione di massa (niente da invidiare ai moderni sistemi massmediatici). Perfino gli analfabeti potevano allora avvalersi di esegeti per la spiegazione testuale, non come oggi. Fu proprio Augusto a fare dei monumenti epigrafici uno strumento di propaganda politica (pensiamo al suo testamento, alla lunga iscrizione nota come “Index Rerum Gestarum o Res Gestae Divi Augusti”. Peccato che spesso il supporto è stato riutilizzato ad esempio per la costruzione della Roma cristiana (“quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini”, indirizzata ad Urbano VIII; vedi anche Pasquino, la statua ‘parlante’ di Roma). Per gli strati più umili l’epigrafia era più che altro legata alla commemorazione dei defunti. Sì, hai ragione, l’epigrafia non è solo una fonte storica, è l’antesignana massmediologica e uno strumento di persuasione.

Anonimo ha detto...

Il commento precedente è il mio
Gilberto

magica ha detto...

buongiorno .
signor tummolo ..grazie per i suoi i suoi interventi istruttivi .
lei sprizza cultura da tutti i pori . . .

Manlio Tummolo ha detto...

Cara Magica,

grazie per l'elogio. Ma ciascuno di noi ha elementi che non conosce. E anche l'elenco mio sarebbe lunghissimo. Per un docente di storia e filosofia, è comunque doveroso cercare di ampliare le proprie conoscenze il più possibile, proprio per la natura multidisciplinare di queste materie.

MAGICA ha detto...

INFATTIOGNUNO DI NOI è IGNORANTE A MODO SUO . NON SI PUO' SAPERE TUTTO .
IL SUO SAPERE COMUNQUE IO LO APPREZZO .

Vito Vignera da Catania ha detto...

Carissimo amico Gilberto buona sera.Che succede ultimamente che stai sfornando come un panettiere diversi articoli? Sarà che hai pochi impegni è sei bello è rilassato,mi sa che debbo venire a controllarti.La politica italiana non lo so a quale soap opera si potrebbe identificare,forse "beautifull", un posto al sole no,in questo momento vedo molte nubi all'orizzonte.Non possiamo farci nulla caro amico,ormai siamo come soggiogati da tutto quello che la televisione trasmette,sia come pubblica che privata.Telecomando alla mano e fai zapping,è vai alla ricerca del canale che più ti interessa.Pensa se potessimo fare zapping con i nostri politici,premiamo un tasto e cambiamo politico,e magari l'ho mandiamo in un altro partito.Eppure ti ci vedo come presentatore di un bel programma di intrattenimento,un bel salotto televisivo,tanti ospiti in studio con i più svariati temi da trattare,un programma del tipo Americano,dal titolo grandioso:The New Gilberto Show. Come ti sembra? gli indici di ascolto saranno alle stelle,e vista la tua enorme cultura non credo di sbagliarmi.Ok ho voluto scherzare un po caro Gilberto,altrimenti sai che noia con queste soap opera politichesi.Ciao caro Gilberto e un abbraccio all'amica Magica.

Manlio Tummolo ha detto...

Cara Magica,

Lei sa che ricambio la stima e che L'ho sempre considerata aperta, autentica e molto simpatica, fin dal Suo "dialogo delle Carmelitane Scalze" con Carla. Una persona che non si finge chissà che, come altre persone scriventi nei blogs.

Anonimo ha detto...

Carissimo Vito
Intanto vorrei esprimerti la mia vicinanza relativamente al problema di salute di tua moglie. So che le mie parole potranno sembrare di circostanza, ma credimi, è dimostrato che le persone che amiamo ricevono delle cure invisibili, quelle dell'affetto e della cura (il placebo) che agisce sempre come surplus in aggiunta a qualsiasi altra terapia farmacologica e chirurgica.
Per quanto riguarda il "The new Gilberto Show" ho paura che sarebbe un flop colossale. In ogni caso grazie per le tue parole di apprezzamento. Nel caso comunque ti assocerei senz'altro come collaboratore nell'impresa.
Gilberto

Vito Vignera da Catania ha detto...

Carissimo amico Gilberto grazie di vero cuore,e credimi faccio il possibile per cercare di tenerla un po su con il morale,perché sai come vanno certe cose,basta un po di sconforto è succede l'imprevisto.Per il resto sai che mi piace scherzarci su con certi argomenti,e so che apprezzi il mio umorismo,fatto solamente per sdrammatizzare certe situazioni.Ti abbraccio sempre con affetto.