mercoledì 19 febbraio 2014

Il festival di Sanremo? La ninna nanna del pinocchietto italiano che vive nella sua cameretta e dorme con l'orsacchiotto mentre la tv gli racconta la solita favola...

Articolo di Gilberto Migliorini


Ci sono trasmissioni in tv che segnano lo spirito della nostra storia nazional-popolare. Spettacoli che con tutto il loro pathos rappresentano quell'italiano che non cresce mai, che rimane come Pinocchio un eterno burattino, non un bambino, solo un piccolissimo robot, un automa estasiato nel guardare quel mondo convenzionale di piccole cose, quel teatrino senza tempo dove tutto è sempre diversamente uguale (il mondo dei peluche e dei trenini di legno, delle bamboline e dei giocattolini, delle canzoncine e delle filastrocche). Per quanto qualche grillo parlante (spiattellato sul muro) cerchi di risvegliare nel piccolo protagonista di legno un attacco di dignità e di consapevolezza, il nostro burattino rimane avvinto a quello spettacolo di marionette dove lui recita per interposta persona, con un ventriloquo che lo fa parlare e lo fa cantare.... come se davvero fosse lui il protagonista e non un pupattolo mosso dai fili insieme ad Arlecchino e Pulcinella.

Ci sono format che rappresentano l’incantesimo nel quale il protagonista è stato irretito dentro un sogno ad occhi aperti, su un piccolo palcoscenico che sembra grande come il mondo, ricco di humor e di procaci fondoschiena… pieno di ogni ben di dio compreso l’ospite che fa tendenza e l’avvenente letterina. C’è l’orchestra e la scenografia con l’immancabile scala che ascende a un cielo etereo, i nostri sogni irraggiungibili. È il grande spettacolo della canzone… o una recita parrocchiale, la minuscola scenografia di un carillon dove due pupazzetti pirlano al suono di un’orchestrina, compunti e inamidati nel loro ruolo di istrioni? Solo patetici fantoccini che sanno far l’inchino ed emettere una voce stridula al suono di un organino? Forse robottini che recitano la loro parte a memoria, come due scolaretti che hanno imparato la lezione e sanno che bisogna filar dritto come Pippo cammina dritto

Sembra tutto vero, tutto drammaticamente autentico, lo specchio nel quale l’italiano vede incorniciata la sua identità, quel piccolo mondo antico che da sempre lo tiene imprigionato in un labirinto canoro, in uno spettacolino sfolgorante di paillettes, povero e insignificante, ma ricco di una comicità compassata e puerile, di canzonette che ripetono pedissequamente il loro leit-motif di parole, parole, soltanto parole... È come tornare a quei ludi infantili su un palcoscenico del carnevale, all'oratorio, con i coriandoli e le stelle filanti, le mascherine, i frizzi e i lazzi, e le fanciullesche battute che strappano il riso al nostro giudizioso e solerte bamboccio. Ride il pupazzo con quell'aria tra l’ingenuo e il faceto, furbescamente perché conosce già la battuta: gliel'hanno detta tante volte e in tutte le salse, in tutti i mesi dell’anno e in tutte le stagioni. Quell'effetto sonoro è come un abracadabra, la parola magica che gli hanno sussurrato facendo vibrare un sonaglio mentre era steso sul suo lettino, munito di farfalline girevoli attaccate a un filo

Lui, il tapino, fa vibrare un vocalizzo come se volesse dir la sua, provare a raccontare. No, poverino, la sua lallazione è solo per gioco, sa gridare, biascicare, farfugliare… ma non certo parlare o addirittura argomentare. È la replica di un’antica operina, l’immagine convenzionale che ripropone il medesimo schema, la solita musica, la stessa malia dove il nostro burattino si trova invischiato: una recita dove si ride graziosamente del niente, dove l’eterno marmocchio batte le mani a comando e fa una smorfia ai due volti che gli sorridono ammiccanti e serafici, sull'orlo della sua incubatrice nel suo minuscolo mondo di muppets. Lui è sempre quell'anima candida, sono i suoi sogni di eterno fantolino, rassicuranti anche quando al risveglio non vede più il trenino e guardandosi allo specchio scopre che forse è un po' invecchiato, pur rimanendo piccino piccino. Ma a lui piace stare ancora nel teatrino di Mangiafuoco, giocare con i cerchi e i birilli: le antiche canzoni, i vecchi ricordi, le immagini in fotografia... come se il mondo fosse così come allora e lui, il pinocchietto, conservasse ancora l’identità che gli è stata cucita addosso, come un vestitino. 

La fatina dai capelli turchini  si è un po’ appesantita, gracchia come una cornacchia, ma il burattino la vede bella come allora. E come allora vede la propria immagine di sempre, la casetta, l’orsacchiotto e la Barby nella sua cameretta di fantolino.

Il teatrino del niente… la straordinaria performance del genio italico, la quintessenza della nostra storia e della nostra proverbiale fantasia, del nostro estro, del nostro patrimonio di idee e di cultura. Il luogo della memoria, la nostra identità fatta di pochi ingredienti, sempre uguali, un po’ come un piatto di spaghetti con il sugo, come l’americano di Sordi, identità costruita a tavolino... stereotipo e condanna a ripetere indefinitamente il nostro cliché. Fugaci allusioni alla politica, per ridere della parodia e del quotidiano teatro dell’assurdo, come se riguardasse qualche popolo alieno, come se non fossimo noi i protagonisti della tragicommedia che ci vede quotidianamente alle prese con chi ci governa. Un sarcasmo simulato, un’ironia che sembra più che altro un sussiegoso e rispettoso baciamano al potere. Stereotipi per ridere della nostra melensa e ottusa pochezza come se quella fosse il nostro genio straordinario e inarrivabile. 

Un pastrocchio di barzellette insulse per non scontentare nessuno e per ribadire la par condicio, la lottizzazione di un servizio televisivo in cui il cittadino è solo un manichino. Giusto un po' di peperoncino, qualche battuta irrispettosamente rituale, una simulazione di pluralismo, ma non troppo, per non turbare le anime candide ancora avvolte nei loro sogni da bambini, per non svegliare i frugoletti che ascoltano nel loro sonno sereno la favola bella che ieri mi illuse, che oggi mi illude. La cultura sotto forma di concentrato, succedaneo, minestrone… magari Dante in vernacolo come fosse una bistecca alla fiorentina, con quell'aspirato che fa del poeta trecentesco un emulo della vita è bella, un cantastorie per fantoccini, un pittoresco luogo comune fatto per dare un vernissage letterario a uno spettacolo canoro insulso e monocorde tra uno spot pubblicitario e un promo di se stesso. Qualche vecchia cariatide a ricordare che la nostra storia è fatta di polene, di statue, di orpelli, di miti intramontabili e insignificanti: salvo per una tv autoreferenziale per la quale è vero solo l’intruglio che negli ultimi trent'anni ha scodellato polenta sul desco degli italiani, trasformandoli in salsicce e cotechini. 

Personaggi che popolano il video come se fossero inscritti da sempre nei pixel dello schermo, che costituiscono oggetti perenni del panorama massmediatico, abitanti di sempre del nostro immaginario e dell’etere, le facce che non smettono mai di popolare i nostri sogni e i nostri incubi. Una televisione dove i cittadini sono comparse, i figuranti di qualche studio televisivo incollati a sedie e poltroncine: come a dire che gli italiani esistono veramente, che non sono solo fantasie ed ectoplasmi. 

Sono lì solo per far scena. E se si azzardano a parlare senza essere interpellati, se solo osano alzare un braccio per fare una domanda senza prima essere stati istruiti a dovere su cosa si può dire o non dire… apriti cielo, interruzione di servizio pubblico, di spettacolo, lesa maestà penalmente rilevante. No, non si fa! Ciascuno al suo posto, non disturbare il manovratore. C’è chi intona la solita canzone, quella che abbiamo ascoltato tante volte e non abbiamo mai compreso veramente, e chi siede in sala ed ascolta rapito il più insulso spettacolo del mondo e si addormenta al dolce suono di una ninna-nanna.  Articolo di Gilberto Migliorini 

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