sabato 22 marzo 2014

Spending review: ovvero la miopia del ragioniere e gli interessi occulti

Articolo di Gilberto Migliorini

È un peccato che le persone che sanno come far funzionare il paese siano troppo occupate a guidare taxi o a tagliare capelli. George Burns-Life magazine-1979

Informazione = Persuasori occulti
I portatori dei formidabili cosiddetti gioielli sembrano sprizzare ottimismo da tutti i pori, davvero attivi e baldanzosi, sfoderano una sicurezza da far invidia perfino a un becco. Il paese viene descritto come in via di guarigione, un malato ormai in convalescenza, sul punto di saltare fuori dal letto ringalluzzito e trepidante di energia vitale, perfino in grado di far fronte ai doveri coniugali con rinnovata passione e adeguata capacità erettile. Ci sono poi i bamboccioni che dimostrano una straripante energia, una smania iperattiva da far invidia a un adolescente in fase di tempesta ormonale… Purtroppo però l’Italia sembra da anni incartata in un circolo vizioso, presa in un mulinello che la trascina sempre più giù. Gli italiani sono come certi nuotatori sprovveduti che improvvisamente si trovano in difficoltà: non toccano più, le onde sembrano giganteschi cavalloni e più si dibattono per tornare a riva e più bevono e vanno giù… Fin qui la metafora. Ma quali i motivi?

Nella ricerca delle cause qualcuno comincerà a snocciolare una serie di fatti, circostanze, esempi e situazioni per le quali si evincono i motivi per i quali stiamo andando a fondo. Si tratta di quei cahiers de doléances che assomigliano a un programma politico alla rovescia: si scambia l’effetto con la causa, non si tratta di un’analisi, si tratta per lo più di una sintesi di argomenti buttati lì alla rinfusa. Ci parlano di economia (monetaria), posti di lavoro, tasse, spread, spending review… e chi più ne ha ne metta. Sono gli economisti, bocconiani e non, a fare i guru, i ritrattisti del bel paese con tanto di tabelle e slides per i profani che si lasciano impressionare da PowerPoint e da qualche cifra che fa tanto trend (il tre per cento è una sorta di spauracchio, una volta si parlava al popolo degli italioti del lupo mannaro nella favola di cappuccetto rosso, adesso si parla del famigerato tre per cento). Basta evocare quel numero magico e tutti annuiscono con un’aria grave di circostanza come se sapessero che lì il paziente diventa comatoso e che il trapasso è solo a un passo… poi, prima ancora che il cuore abbia cessato di battere verrà diagnosticata una morte cerebrale e il morituro espiantato di tutto il bendidio di madre natura: cuore, polmoni, reni… e senza lasciargli nemmeno le monadi (gonadi) ad attestare che almeno lì bisognerebbe soprassedere. 

I vampiri potranno succhiare il sangue fino all’ultima goccia. I gioielli del bel paese non a caso vengono prima rottamati con politiche ad hoc, e poi svenduti a prezzo di saldo. Si tratta di privatizzazione, la parola magica con la quale il tre per cento diviene l’ago di oscillazione di una bilancia omeostatica dove però qualcuno ci mette su il suo dito per taroccare la misura, il solito vecchio trucco inossidabile del dirigere lo sguardo dove la mano sta facendo dell’altro (misunderstanding).

I termini inglesi nel nostro paese fanno sempre un certo effetto sulla popolazione che crede di trovarsi di fronte a qualcosa di assai complesso e misterioso, qualcosa che assomiglia a un animale esotico e invece è solo una gallina che razzola sotto casa. Non c’è infatti niente di meglio del classico pollo statisticamente irrilevante, salvo poi scoprire che i veri polli siamo noialtri che ci beviamo la storia delle statistiche più o meno addomesticate, costruite con quei bei diagrammi a torta (le torte sono proprio quelle che ci propinano con tanto di immagini subliminali). C’è la storia di quel tale che per risparmiare sull’acquisto del tacchino (no, non si tratta del tacchino di Russell), tanto per stare in argomento pennuti, non andava dal beccaio sotto casa ma si recava alla macelleria distante tre chilometri (sei tra andata e ritorno) per risparmiare 10 centesimi sull’acquisto, salvo aver consumato in quelle periodiche peregrinazioni ben più di un paio di scarpe… Ma qualcuno potrebbe osservare che la sua forma fisica ne avrà senz’altro tratto vantaggio (si sa che il movimento mette al riparo da parecchie patologie). 

Il solito bastian contrario porrebbe invece l’accento sull’appetito maggiorato e dunque sulla frazione di pollo (ehm… di tacchino) necessaria per integrare le energie spese in quella peregrinazione supplementare. Insomma, razionalizzare la spesa (spending review) è una faccenda molto più complessa di quanto appaia. Quella che può sembrare un’economia (un risparmio di spesa) in realtà può rivelarsi una faccenda molto più complicata e innescare una catena di conseguenze di difficile previsione. I ragionieri, ma talvolta anche gli ingegneri, hanno un modo un po’ semplicistico di interpretare i processi di razionalizzazione. Si potrebbero fare esempi in ogni campo, dalla sanità alla scuola, dai trasporti alla giustizia. Non si tratta solo di mettere dei numeri in una formula, ma anche di capire dove stanno quei numeri, quante sono e quali sono le variabili che intervengono in un processo di valutazione. Per far questo non basta la logica, occorre anche immaginazione, fantasia, scoprire i nessi misteriosi che mettono in comunicazione comportamenti sociali e psicologici che all’apparenza non intrattengono nessuna relazione tra loro. Insomma, andare oltre l’economia dei numeri e rappresentare la realtà economica come un complesso di resistenze e opportunità, di aspettative e di progetti, ma soprattutto un modello di sviluppo (la parola che va tanto di moda) dietro il quale si celano gruppi di potere e lobby più o meno dichiarate. 

Ma occorre anche capire chi rappresenta chi… in quel processo che va sotto il nome di rappresentanza politica e di razionalizzazione della spesa. Certo, non si invidia chi deve operare dei tagli o comunque delle revisioni che abbiano come fine la riduzione della spesa pubblica, rischiando comunque di scontentare qualcuno, nella migliore delle ipotesi recando vantaggi alla collettività nel suo complesso e nella peggiore lastricando l’inferno sociale delle migliori intenzioni, buttando fumo negli occhi di un elettorato che il più delle volte si fa menare per il naso. Però, pur non essendo né un ragioniere e né un ingegnere, mi permetto di fare alcune considerazioni generalissime sui processi decisionali in materia di spesa pubblica e della sua razionalizzazione con l’ausilio della logica formale e con il contributo della psicologia sociale e della epistemologia, ma allegando anche l’aspetto creativo, direi letterario, di un procedimento che alla fine risulta più vicino alla forma artistica che a quella scientifica (la politica come arte del possibile). Di sicuro qualcuno si scandalizzerà ritenendo che il procedimento di revisione della spesa è un calcolo numerico sottoposto ai rigidi metodi quantitativi. No, non è come fare un conteggio su un foglio elettronico (la matematica in questo caso è proprio un’opinione). Usare esclusivamente metodi quantitativi per definire dei criteri di spesa non è un procedimento razionale, può davvero andare incontro a cocenti delusioni, a effetti boomerang davvero spiacevoli, perfino nefasti se innescano conseguenze imprevedibili e perverse. 

È pur vero che oggi si ritiene possibile trasformare il qualitativo in quantitativo, la bellezza ad esempio viene tradotta in precisi parametri numerici, ma va da sé che ogni epoca storica ha espresso un suo ideale di bellezza e che le misure del bello ci mettono sovente di fronte a corpi che hanno più l’apparenza del manichino...

Ma torniamo a noi. La razionalizzazione della spesa pubblica è un fatto eminentemente di progetto che tiene conto di quelle sotterranee relazioni che intrattengono i provvedimenti legislativi, le norme, i decreti. La politica italiana, purtroppo, più che su un progetto organico è vissuta di negoziazioni e soprattutto compromessi e interessi di bottega, voti di scambio, do ut des, referenti più o meno occulti: un po’ come l’auriga platonico con una biga alata che invece di due cavalli (quello bianco e quello nero) deve coordinare gli interessi di una mandria di referenti, le varie lobby e non già il bene della collettività. Col finanziamento pubblico (o non) si è trattato in genere di una politica che mostra dei contenuti manifesti più o meno vaghi e indeterminati, confezionati in modo da ricevere un consenso facendo leva vuoi sull’ideologia, vuoi sul moralismo accattivante e di maniera, vuoi sulle paure ancestrali, vuoi sulle promesse e sui contentini... ma vuoi anche semplicemente sulla retorica becera dei cowboy della politica

Dall’altro, però, dietro le quinte, chi più e chi meno ha tradotto il potere secondo interessi dei propri referenti specifici (investitori e finanziatori, più o meno occulti, che strumentalizzano il voto per i propri interessi). Per questo le politiche non sono altro che affastellati di provvedimenti, di leggi e di regolamenti che nel tempo hanno costruito una torre di Babele, un labirinto di privilegi e agevolazioni, di opportunismi e favoritismi, di ideologismi e particolarismi: insomma, un coacervo di interessi davvero difficile da districare. È come una costruzione puntellata da un teorema di sostegni e di impalcature: una rete che ricorda Ottavia, una delle città invisibili di Italo Calvino, la città ragnatela sospesa su un abisso dalla quale pende, invece di elevarsi sopra, la vita precaria dei suoi abitanti consapevoli che più di tanto la rete non regge. Per questo si va avanti così, con un colpo al cerchio e quell’altro alla botte cercando di riportare il sistema in equilibrio con quell’italico opportunismo basato su una logica fuzzy, aggiustamenti negoziali estemporanei fondati su periodici riaggiustamenti sempre provvisori e sempre trasformistici. Si rabbercia la rete dove serve, spostando qua e là il carico, togliendo e aggiungendo nodi e sostegni in forza della democrazia del patteggiamento e dell’interesse particolaristico, delle furbate di turno (una rete appunto che intesse compromessi in una trama fitta, e in un ordito quasi invisibile). 

D’altro lato un progetto politico può risultare perfino più ingannevole di una logica a spizzico, se assume le sembianze rigide e intransigenti di un puritanesimo interessato, l’astrazione di uomini produttori, consumatori, elettori… solo corpi senz’anima o anime da salvare e addestrare, sempre interdetti salvo quando depositano la scheda nell’urna alla quale una qualche legge elettorale ha già dato a priori un peso specifico con una rappresentanza addomesticata. Un progetto politico forse esiste davvero nelle segrete stanze e ci si può allora interrogare su quale possa essere il nostro destino di gente comune. Molti si sono chiesti chi tira davvero le fila della politica italiana, al di là di qualche estemporaneo prestidigitatore (garzoncello scherzoso), e soprattutto quale sia il piano prospettico verso il nostro futuro. La spending review più di qualsiasi altra cosa può dire molto a proposito, sia che si tratti di un programma pianificato nel dettaglio (con una visione complessiva) sia che si tratti semplicemente della solita politica del colpo al cerchio e del colpo alla botte.

I cittadini dopo aver espresso il loro voto divengono solo ombre nell’Ade, epifenomeni da conservare in naftalina e da informare secondo i dettami di un copione del genere commedia leggera se serve rappresentare l’utopia del bel paese sulla strada della rinascita (più o meno immaginaria), del genere drammatico quando occorre chiedere ai soliti noti i consueti sacrifici senza contropartita, o del genere thrilling quando occorre spaventare un po’ l’elettorato in vista dei tradizionali sacrifici a chi è aduso farli.

La spending review è soltanto una macchia di Rorschach, una parola che significa poco o nulla. Non si tratta di una politica costruita su una visione e un progetto che tenga conto degli interessi e dei bisogni di tutti e soprattutto del benessere collettivo. Il termine richiama le rappresentante occulte, i finanziatori e i suggeritori che usano la massa dei votanti come pedine da muovere su una scacchiera, per giunta truccata, dove alcune rappresentanze scompaiono ingoiate da altre alle quali si oppongono per via di una legge elettorale che in nome della governabilità interpreta i voti a suo piacimento. Un imbroglio colossale per il quale con i premi di maggioranza veniamo tutti omologati in un sistema dove è sufficiente controllare un venti per cento degli aventi diritto al voto per controllare una maggioranza parlamentare. Il termine democrazia diventa davvero solo una parola da interpretare. E non solo in riferimento alla legge elettorale, ma anche riguardo al significato di rappresentanza, di interesse collettivo, di uguaglianza dei cittadini, di responsabilità e trasparenza… 

Non è nemmeno immaginabile l’uso di un termine siffatto (spending review) senza inquadrarlo in un progetto complessivo, in un programma in cui siano indicati non già gli obiettivi (nome passepartout per giustificare tutto e il suo contrario) bensì il progetto e l’immagine che si vuol dare al paese, gli interessi collettivi che si vogliono tutelare e il significato delle categorie che si utilizzano (in modo non generico) per definire il progresso, il benessere, la pubblica utilità, la salvaguardia del territorio, lo sviluppo sostenibile… (ma non servendosi di una retorica vuota e altisonante dietro alla quale si nascondono interessi di parte spacciati per bene comune).

Lo scenario che si presenta con gli ultimi governi è appunto quello del colpo al cerchio e del colpo alla botte, secondo interessi che di nazionale ed europeo hanno solo quello degli speculatori a vario titolo e di una massa di votanti considerata alla stregua di un gregge da abbindolare.

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