sabato 20 settembre 2014

Italy for sale...

Articolo di Gilberto Migliorini


La storia si ripete, segno che non si è imparata la lezione, segno che le categorie mentali che hanno improntato l’Italia fascista sono sopravvissute alla retorica, alla demagogia e perfino a tutta quella prosopopea che ha fatto degli italiani un popolo di teleutenti e di epigoni. Lo Stato è in (s)vendita nel supermarket delle occasioni con annessi sudditi, portaborse e leccaculo, con accluse servette a tutto tondo e la munificenza di vestali e veline. Mentre la nave affonda si fanno indagini per misurare l’apprezzamento del leader, e per quanto tutti gli indicatori sullo stato del benessere collettivo peggiorino, sembra che la fiducia nel reggitore di governo e nella maggioranza che lo sostiene si mantengano abbastanza stabili. È un paese che anche quando non sa bene quello che vuole, preferisce la certezza di un futuro funesto e oscuro piuttosto dell’azzardo di un vero cambiamento. La cosa strana è che si parla sempre di stato dell’economia e mai del benessere collettivo, dove gli indicatori economici sarebbero per formula concisa la misura di quella che un tempo veniva indicata come felicità, appagamento, prosperità…

Il benessere (al di là degli artifici contabili e delle finzioni statistiche) dovrebbe rappresentare la misura dello stato del Paese. Gli economisti e i banchieri ormai traducono in moneta sonante quei beni che dovrebbero procurare appagamento, anzi li trasformano in denaro virtuale, in transazioni quantificate come beni di consumo, il PIL, lo spread, il rating e quant’altro funga da misura astratta e convenzionale. Il benessere collettivo, insomma, non viene qualificato sotto forma di realizzazione personale (pur se mediata socialmente), come consapevolezza e come soddisfacimento dei bisogni fisici e mentali misurati in concreto, come il bene comune viene tradotto, sic e simpliciter, in matematica dei consumi, in prodotto e reddito pro capite indipendentemente dal loro impatto sulla salute, sull’ambiente di vita e sul patrimonio che lasceremo in eredità ai nostri figli. L’economia monetaria diviene il parametro per misurare tutto, nell’ottica di un affarismo per il quale il resto non esiste. La miopia dei metodi quantitativi comprende una scienza che è ormai paladina del sistema economico industriale. Si quantificano anche quei fattori al contorno a medio e lungo termine dei processi economici, ma trascelti arbitrariamente e sempre nell’ottica di uno sviluppo che si avvia sempre più velocemente verso l’effetto catastrofe. 

Più di tanto la trave non regge. La scienza tiene conto solo dei fatti che ritiene rilevanti nell’ottica di quel sistema industriale che ne sovvenziona le ricerche, che le offre spunti di sviluppo, che insomma ne promuove l’attività sotto forma di posti di lavoro e prestigio, che ne asseconda le ricadute sui profitti economici e sullo sviluppo di un’industria senza freni. Una ricerca scientifica fuori controllo, o meglio sotto il controllo di un sistema produttivo incentrato sul profitto e sulla espansione del volume d’affari. La scienza al servizio del progresso e della felicità dell’uomo ha fatto il suo tempo, si tratta, al di là della retorica della conoscenza, di quella neutralità di facciata che dipinge la ricerca scientifica in tutte le sue varianti come una sorta di panacea di tutti i mali, un paradiso di delizie che andrà a sostituirsi a una natura matrigna. L’immagine dello scienziato che nel chiuso del suo laboratorio cerca di scoprire i segreti della natura è solo l’ipocrita e interessata retorica che cerca di nascondere l’intreccio di interessi che sta portando il pianeta verso la catastrofe. Il paradosso è che gli apparati che dovrebbero misurare l’impatto dell’economia di mercato sugli equilibri ecologici, contribuiscono a promuovere quel sistema produttivo fuori controllo che sta portando l’ambiente di vita sull’orlo del collasso. Questo ovviamente non vale solo per l’Italia, anche se altri paesi cercano di scaricare le conseguenze più eclatanti al di fuori dei loro confini, là dove classi dirigenti corrotte sono disposte a tutto per arricchirsi a spese di sudditi ignari o asserviti. 

Il caso italiano è un ibrido tra una morente cultura della tutela del patrimonio collettivo e una nuova cultura di un affarismo senza remore e senza morale: la svendita del paese in una sorta di autoriciclaggio, una catena di sant’Antonio per la quale Bengodi è per chi alla fine, spolpato tutto, può andare a svernare in qualche paradiso artificiale approntato per le bisogna, quelli che possono spostarsi agevolmente là dove li porta il cuore e il portafoglio. Altri sopravvivono ancora beatamente ma prima o poi anche loro scivoleranno tra la massa degli incapienti.

Ormai è solo questione di marketing. Gli italiani si cullano ancora nelle reiterate promesse confezionate con il crisma dell’advertising e con l’accortezza della promozione, più ancora con il semplice slogan accattivante e ruffiano. È il mondo di carta dei (finti) aristotelici, la posa dell’attore consumato, la televendita orchestrata con sponsor e figuranti che mentre parlano di plus e benefit ti rifilano un colossale bidone. Però il protagonista è bravo, bravo a distribuire patacche con nonchalance, bravo a intonare la canzone, bravo a venderti qualcosa che per lui è soltanto un’opzione come un’altra, ma comunque strumento di autopromozione e galleggiamento. Ma una domanda è d’obbligo. Quali sono le strutture profonde che presiedono ai meccanismi culturali dell’italico homo mediaticus, quale il retroterra storico che ha fatto dell’italiano un italiota con tanto di certificato di garanzia, quel perfetto testimonial nel teatro della commedia dell’arte, quella dove i personaggi recitano un copione allestito su misura per lo spettatore dabbene?

Si potrebbe andare alla discesa di Carlo VIII sulle soglie della storia moderna, alle divisioni della penisola in tanti piccoli stati, al ruolo della chiesa come elemento disgregante e di conformismo… fino all’unificazione e anche oltre, con quelle consorterie d’affari supportate prima da oligarchie e poi da un sistema mediatico del consenso capillare. Si dovrebbe doverosamente parlare del ventennio, del dopoguerra, dei partiti politici trasformati in comitati d’affari, in una sorta di storia a ritroso… cosa che gli storici hanno fatto e fanno per cercare di rilevare le contraddizioni di un Paese con una classe dirigente espressione coerente del suo popolo. Una cultura sempre alla ricerca di una identità, un po’ fasulla e un po’ appiccicata, l’immagine costruita con lo specchio deformante dei mediatori di massa, perfezionata con qualche giullare che ci illude, con una vena satirica di facciata, che la democrazia non è parola vuota da illusionista, che si può davvero esprimere il dissenso. Il cinema ha provveduto a dare all’italiano un volto costruito più o meno fedelmente, mostrando ipocrisie, meschinità e opportunismi di macchiette che cercano di sbarcare il lunario in una quotidianità difficile e onerosa, in una furbizia di profittatori e magnaccia istituzionali. Però perfino la letteratura contemporanea non è mai andata a cercare le strutture profonde di un popolo eternamente in lotta con se stesso, alla ricerca di un assetto stabile, di un benessere consolidato, di un sistema ideologico che non fosse un ologramma pennellato di retorica e demagogia. 

Per trovare una descrizione del popolo italiano costruita su categorie non convenzionali, bisogna andare alla grande letteratura prima dell’unificazione, quando l’Italia era soltanto una identità geografica, ma che per qualche misteriosa alchimia già manifestava il suo carattere unitario sia antropologicamente e sia culturalmente (nonostante le molteplici dominazioni e divisioni territoriali). Dante non ha bisogno di paludarsi con quel diplomatico e reticente parlare per tropi e traslati di tanta nostra diplomazia dell’inciucio e del compromesso, non le manda a dire al potere. Petrarca non formula parole d’amore sull’onda olografica di tanta letteratura e filosofia della retorica ruffiana. Il Boccaccio non fa della letteratura quell’impegno lezioso e inamidato di tanti intellettuali in leasing a qualche consorteria alla quale offrire climax e invettive. Perfino Ariosto con il suo esordio scoppiettante dell’Orlando pare troppo poco politicamente corretto per poter fare da sponsor a qualche potentato. Del Machiavelli si potrebbe dire che sia in perfetta sintonia con l’attualità, se non fosse che il segretario fiorentino - per quanto qualcuno gli abbia affibbiato il celebre aforisma che il fine giustifica i mezzi - pensava a uno stato in cui il principe di sicuro non fosse un fellone come purtroppo talvolta ci capita di constatare per il moderno reggitore.

Una prima obiezione risentita è quella che rileva il carattere eterogeneo degli italiani, da nord a sud e da est a ovest, dando dunque per acquisito che esiste quella piccola patria manzoniana che certuni qualificano come l’aspetto peculiare dell’italico sentire, espressione di una specifica territorialità e di una mentalità autoctona, al di là di un’economia più o meno sviluppata e di un retroterra di esperienze psico-sociali maturate un po’ nelle mura domestiche e un po’ in quel suolo natio che certuni considerano come luogo d’elezione e di vissuti agiografici. Sembra di ascoltare quell’analisi storica che da un versante antropologico declina l’italiota secondo una disparità di valori, di mentalità e financo di attitudini che costituiscono una sorta di imprinting culturale irriducibile a qualsivoglia omogeneità nazionale. 

La canzone ce l’hanno tradotta in più versioni, naturalmente in quel dialetto (che peraltro ormai va scomparendo) che sarebbe l’elemento probante di quella variegata scacchiera rappresentata da un territorio leopardato dove le genti italiche sarebbero soltanto un pot-pourri male assortito e amalgamato, un risotto mari e monti con l’aggiunta di una eterogenea miscellanea di ingredienti tra il nostrano e l’esotico. Per carità non si parla di ottentotti, si parla di quella vasta platea di connazionali cresciuti alla scuola mediatica dei telegiornali di regime, dei giochi a quiz, delle tribune politiche ammaestrate, dei moderatori imbalsamati, degli stereotipi culturali ammansiti con le retoriche dei bacchettoni.  Gli storici di tale grimaldello interpretativo ne hanno fatto una sorta di romanzo tematico, fedeli a categorie interpretative un po’ datate, ma comunque con una loro dignità caratteriale hanno puntato il dito contro una storia patria di divisioni, isolamenti, antagonismi tra città e signorie, di principati retti da una ragion di stato territoriale e di feudi ben protetti...

La realtà, nonostante l’immagine evocativa di leghe, consorterie, regioni e provincie così amate per il divide et impera, è affatto diversa, è esattamente il suo opposto, al di là dell’olografia divisionista di un paese che a detta di detrattori e imbalsamatori sarebbe un collage costruito con il taglia e incolla. La commedia dantesca sembra davvero emblematica ancora in epoca medioevale: si trattava davvero di un grande affresco e non già di un insieme di tessere giustapposte, una cultura già ben amalgamata sia pure nella disparità dei dannati e dei beati. Perfino il romanzo manzoniano, secoli dopo, avrebbe fatto della piccola patria, nell’addio dei monti di Lucia, soltanto l’occasione di un intermezzo. Poeticamente raffinato, sì, ma in realtà solo una pausa prima di calarsi nel romanzo immemore alla fine dei vezzi e delle civetterie localistiche, ben più interessato alle categorie dell’umano sentire e di quell’italico opportunismo alla Don Abbondio, di quell’arroganza di signorotti cosmopoliti, di quella servizievole e premurosa collaborazione dei bravi al soldo del potente di turno.


Se c’è una evidenza incontrovertibile dell’Italia odierna, è infatti quella cultura monolitica e omogenea di un paese dove in senso ortogonale e trasversale il conformismo ideologico-culturale viene espresso (al di là di differenze di mero abbellimento e di intonazione) dall’identica attitudine al malaffare, dalla eguale e ragguardevole inclinazione a fare degli interessi collettivi i propri interessi particolari, a concepire la cosa pubblica come faccenda di consorterie, di camarille, di circoli amicali, di interessi di parte… di compagni con la stessa propensione all’intrallazzo. Una tv di regime (quella pubblica e quella privata) ha provveduto nel dopoguerra - dopo l’intermezzo fascista che è servito a creare l’humus adatto a quella consonanza emotiva fatta di proclami altisonanti e di retoriche ampollose (usando all’uopo anche il bastone per meglio intenerire) – a creare quel comune sentire di un popolo di replicanti che ripete pedissequamente quello che va ascoltando dalla viva voce di mezzibusti, moderatori, affabulatori, ugole canterine, cicisbei, legulei, psiconani, giornalai, prestanome, criminalisti, equilibristi, leccapiedi…. Un paese davvero unitario, veramente omogeneo e embricato per quella mancanza di voci che cantano fuori dal coro. 

E il reprobo che cerca di uscire dal coro, non solo per via etere ma anche col supporto cartaceo e financo provando a strillare in qualche angolo sperduto del Bel Paese, viene cortesemente invitato a soprassedere, nella migliore delle ipotesi, oppure additato come voce stonata, elemento trasgressivo in odore di eresia. Nemmeno Monsignor della Casa avrebbe potuto nel suo Galateo indicare un bon ton più giudizioso e rispettoso di un conformismo ligio ai dettami della moda del momento. Perfino la trasgressione fa parte dell’etichetta, ne è codificata, riceve l’imprimatur di una società che ha previsto anche il gesto irriverente, l’omissione, l’eccezione, la devianza con tanto di timbro di certificazione e l’omologazione da parte del potere. La struttura profonda della società italiana è un conformismo così pervasivo e onnicomprensivo che perfino l’anticonformismo è stato previsto in ogni dettaglio, tradotto in algoritmo e diagramma di flusso. Quello che esce dal sistema operativo, o non esiste proprio o è guardato con sospetto: potrebbe trattarsi di cosa eversiva, violazione di quel galateo interiorizzato mediante un sistema mediatico che opera una censura preventiva su tutto quello che non è stato approvato con certificato di conformità. La struttura profonda del sistema Italia è un conformismo e un appiattimento così radicato da risultare invisibile anche all’occhio smaliziato, ormai talmente abituato al timbro monocorde da non avvedersi che dietro alle maschere si cela sempre lo stesso volto della menzogna. 

Il Galateo, non quella bellissima opera di Monsignor della Casa, è una cultura che dietro all’apparenza dell’estro fantasioso, della moda e del design, impone un sistema lugubre e cristallizzato, i dettami invisibili di un sistema ideologico opprimente e totalizzante. Il male dell’Italia è un pensiero unico declinato secondo stereotipi ingessati e retoriche inossidabili. Più che ricordare il clima della controriforma, l’Italia di oggi ricorda il 1984 orwelliano. Il conformismo e l’appiattimento costituiscono la struttura profonda di un paese sempre più agonizzante. Le genti italiche sono molto più unitarie e omogenee di quanto si immaginano. Una cultura nazional-popolare pervade ogni aspetto di vita con retoriche ben affiatate, luoghi comuni ripetuti alla nausea, stereotipi replicati quotidianamente, idee cadute dal cielo, verità proverbiali che l’italica gente conserva nel libro inscritto in un cuore artificiale e che i mass-media ogni giorno provvedono a ricordare a tamburo battente. 

Opinionisti e politicanti, le moderne sirene che attraggono i naviganti dell’etere, ce la suonano e ce la cantano. Per quanto le parole appaiano sempre un po’ diverse, la musica non cambia… per quanto nuovi attori calchino la scena, si tratta pur sempre del solito spartito...

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2 commenti:

Anonimo ha detto...

Lo sfacelo de L’Italia e iniziato negli anni 50 Con lo scandalo di Fiumicino Che è stato costruito su un terreno paludoso di appartenenza del Demanio che era stato venduto a privati diciamo per Lire 1000 al metro quadro. Lo stato lo ricompro poco dopo diciamo a Lire 10.000 al metro quadro in più si accollo le spese di bonifica del terreno.
Negli anni 60 le sale cinematografiche erano stracolme Ricordo che se arrivavamo in ritardo il film lo vedevamo nelle file laterali in piedi Molti film erano come se soleva dire polpettoni
Ma le persone attente potevano intuire e vedere nel film polpettone le prime denuncie dei misfatti
Come Il libero mercato Esca gettata dal capitalismo che da 50 anni sta dando vita hai mostri che guidano L’ECONOMIA ITALIANA .
Ci hanno costretto ad’ accettare interscambi importando merce che produciamo
Creando crisi NELL’ INDUSTRIA e L’AGRICOLTURA ITALIANA .
L’AMERICA Padre del libero mercato ci impone regole che loro non rispettano .
Provate a invadere il mercato AMERICANO e mettere in crisi le loro INDUSTRIE e la loro AGRICOLTURA automaticamente scatterebbe sulle merci importate ( dazio ed embargo)
Questa prepotenza è imposta dai Manager spocchiosi di oggi.
I Manager da prendere ad esempio sono i vecchi imprenditori Della piccola e media Industria (Padri del Boom Economico) i più nati dalla gavetta Iniziando dal basso sono arrivati al vertice ricchi di esperienza (e umanità) vera LAUREA indispensabile ad un MANAGER.
Nel dopo guerra (ricordo che) in vari settori compreso il settore ARTIGIANO
Lavoravamo 10 mesi l’anno allora la cassa integrazione non esisteva nei due mesi di fermo lavoravamo al rinnovo del campionario per conquistare nuove fette di mercato il tutto a spese del titolare.
La cassa integrazione Figlia dei Bocconiani è nata dopo il boom economico per difendere ( solo ) le grandi Industrie e i loro capitali Dando vita ad un nuovo mercato (da sfruttare ) L’ITALIA
Premiando l’egoismo e là cupidigia ci hanno riportato al punto di partenza.
Purtroppo se non avviene un MIRACOLO con l’egoismo dei potenti e la stupidità dei sudditi
Il BOOM della catastrofe sarà definitivo. VITTORIO

Anonimo ha detto...

da un premier spocchioso che fa solo proclami, che dice in europa ci faremo sentire e aspetta con trepidazione i soldi promessi da junker,i 300 miliardi (ma non dite che andrebbero distribuiti a tutti i paesi ue) è simbolo dell'Italia fallita.
Vedremo quando lo costrigeranno a (s)vendere Eni, Finmeccanica.....
il commento 1 ha ragione sull'agricoltura. Il nostro paese sull'agricoltura decenni fa aveva ministri che in ue si facevano valere. Oggi... si oggi basta guardare le loro facce....

luca